Non poteva essere più “simbolica” l’occupazione della sede Rai di Milano, da parte dei militanti del centro sociale “Il Cantiere” e del Coordinamento dei collettivi studenteschi, per […]

(di Giovanni Valentini – ilfattoquotidiano.it) – Non poteva essere più “simbolica” l’occupazione della sede Rai di Milano, da parte dei militanti del centro sociale “Il Cantiere” e del Coordinamento dei collettivi studenteschi, per protestare contro “l’oscuramento dei referendum sul lavoro e in particolare di quello della cittadinanza”. Simbolica, nel senso che esprime il disagio di una larga parte dei cittadini abbonati al servizio pubblico di fronte al black-out decretato da TeleMeloni nei confronti della consultazione popolare in programma l’8 e 9 giugno. E ancor più simbolica, perché rappresenta plasticamente il distacco fra il cosiddetto Paese legale e il Paese reale: cioè, fra il governo di centrodestra con la sua maggioranza parlamentare che – benché legittima – non corrisponde alla maggioranza elettorale e i diritti e le aspettative dei cittadini. Analogo discorso si potrebbe fare per i sit-in organizzati dal Pd davanti alle sedi Rai di varie città italiane, se non fosse che il centrosinistra è retrospettivamente complice del degrado in cui versa la Tv pubblica.
Oscurare un referendum, e ancor più incitare all’astensione, equivale a rinnegare uno strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione. Se poi l’invito al “non voto” promana addirittura dal presidente del Senato, seconda autorità dello Stato, che così viene meno al suo ruolo super partes, rischia di diventare un atto eversivo.
In questo caso non si tenta soltanto di interferire nella campagna referendaria, suggerendo un voto piuttosto di un altro; bensì si punta a far mancare il quorum del 51% degli aventi diritto al voto e quindi a boicottare la consultazione. E francamente sfidano il ridicolo i partiti che – bontà loro – lasciano “libertà di voto” agli elettori, dal momento che l’esercizio di questo diritto è o dovrebbe essere sempre libero. Il fatto che la radiotelevisione pubblica, finanziata dal canone d’abbonamento, abbia adottato questo oscuramento pro-astensione è un’ulteriore prova della sua sudditanza alla politica. Ma il peggio è che qui non si fa più soltanto propaganda – più o meno occulta – a favore del governo in carica, come pure s’è fatto in passato anche a favore del centrosinistra. Si pratica un servilismo anti-istituzionale che tradisce palesemente la funzione e la responsabilità del servizio pubblico.
Abbiamo assistito negli ultimi giorni a una levata di scudi – un pronunciamento, si direbbe in termini militari – dei tenutari dei talk show contro gli interventi dell’Autorità sulle Comunicazioni in forza della par condicio introdotta nel 2000. Avremmo fatto tutti volentieri a meno di quella legge, se il nostro sistema televisivo fosse effettivamente pluralista: vale a dire se il servizio pubblico non fosse controllato direttamente dal governo e subalterno alla partitocrazia; se non vigesse tuttora il duopolio Raiset; se il polo privato non appartenesse a una forza politica che fa parte da sempre del centrodestra. La par condicio è come un’aspirina per un malato di tumore. Ma in realtà l’Agcom, con la delibera dell’8 aprile scorso e poi con il richiamo del 13 maggio, non ha fatto altro che ribadire i principi di quella legge, valutando sia i notiziari sia i talk show, pubblici e privati. L’Autorità, equiparando l’astensionismo al voto contrario, ha fissato una regola che toglie qualsiasi alibi ai conduttori televisivi, per autorizzarli ad andare in onda perfino nel caso in cui un esponente del No venisse invitato e non si presentasse al dibattito. Resta il “peccato originale” di questa Authority, infiltrata anch’essa dalla partitocrazia a dispetto della sua pretesa indipendenza e della sua funzione di garanzia.
Nel frattempo, la Commissione parlamentare di Vigilanza rimane paralizzata dall’ostruzionismo del centrodestra che diserta i lavori per imporre la propria candidata alla presidenza, Simona Agnes, ripudiando la norma che richiede i 2/3 dei voti: tant’è che il solerte senatore Gasparri s’è già preoccupato di presentare un disegno di legge per tentare di scavalcarla. Mentre l’auspicata riforma della Rai, sabotata dalla stessa maggioranza nonostante gli impegni pubblicamente assunti, langue negli archivi parlamentari. E, come ha scritto su questo giornale Giandomenico Crapis, “ingenuo fu chi allora ci credette”. È per tutte queste ragioni che è necessario andare a votare l’8 e 9 giugno. Si può votare Sì o No, oppure votare scheda bianca, sul merito di ciascuno dei cinque quesiti referendari: contro la precarietà e a favore della sicurezza sul lavoro; per un diritto di cittadinanza più umano e civile, a cominciare da quel milione e mezzo di minori nati o cresciuti in Italia che per poterla richiedere devono aspettare la maggiore età. E ancora, si può votare contro l’oscuramento di un regime televisivo che tende a privare i cittadini di un potere attribuito dalla “Costituzione più bella del mondo”.