Dentro le carceri italiane si muore due volte. Senza colpa e senza voce

(di Fabio Cavallari – glistatigenerali.com) – C’è un rumore sordo che si ripete. Cancelli di ferro che sbattono. Chiavi che graffiano l’aria. Dentro le carceri italiane l’odore è denso. Stanco. Dimenticato. Qui, dove la punizione ha preso il posto della giustizia, si consuma ogni giorno una pena che non ha volto. E che quasi nessuno vuole vedere. Mentre la politica discute di slogan e simboli, le celle continuano a riempirsi. Gli uomini e le donne rinchiusi non sono più storie da raccontare. Ma cifre da gestire. Non si parla più di umanizzazione. Non si parla più di dignità. Si parla di fermezza. Come se la fermezza potesse cancellare il bisogno di giustizia. Nel 1948, Piero Calamandrei scriveva: “Bisogna aver visto!” Non basta conoscere. Non basta indignarsi da lontano. Bisogna vedere. Toccare. Respirare l’odore dei corridoi chiusi. Ascoltare il silenzio pieno di urla soffocate. Calamandrei sapeva che l’abolizione della pena di morte era solo una metà di civiltà. L’altra metà, quella più difficile, era cambiare il modo in cui si punisce. A distanza di settantasette anni, la domanda rimane intatta: abbiamo davvero visto? O abbiamo solo cambiato forma alla stessa condanna? Marco Pannella lo disse senza girarci intorno: “In Italia non c’è la pena di morte. Ma la morte per pena.” Non era una provocazione. Era la fotografia di un sistema che, anziché educare, distrugge. Anziché riparare, spezza. E c’è un’altra verità che nessuno vuole guardare. Che chi lavora in carcere non è libero. Gli agenti penitenziari non escono davvero. Anche loro vivono chiusi tra le sbarre, sospesi tra un ordine da eseguire e una vita da proteggere. Anche loro pagano un prezzo invisibile, giorno dopo giorno. Perché custodire la libertà degli altri, mentre si limita la propria, è una forma estrema di solitudine. E nessuno li ascolta più. Oggi, dietro ogni slogan sulla sicurezza, c’è un carcere che si riempie di vite spente. Oggi, dietro ogni applauso alla fermezza, c’è una porta di ferro che si chiude. E le carceri rimangono mute. Come tombe senza fiori. Come domande senza risposta
Fatte salve le condizioni di dignità e umanità E programmi di recupero con cui queste persone debbono essere detenute, non dimentichiamo che se all’interno ci sono “vite spente”
queste a loro volta hanno prodotto “vite spente” all’esterno.
Troppo “romanzo” non va bene.
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Che una persona oggettivamente “pericolosa” sia confinata in una struttura penitenziaria va bene. Quello che davvero è inaccettabile è che questa gente viene lasciata sola: niente lavoro, nessun percorso di recupero, nessuna assistenza psicologica (a parte un paio di sedute l’anno, buone solo per sgranchirsi le gambe), nessun corso per imparare un mestiere. 23 ore di nulla dove, dilagando l’ozio, dilagano i vizi. E un’ora di “aria”. E secondo lo Stato questo basta a farti uscire cittadino modello.
Invece, chissà perché, escono quasi sempre peggio di come sono entrati.
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I carcerati potrebbero essere recuperati se …..lavorassero , muniti di braccialetto elettronico, per la collettività.
Con obbligo di rientro serale in cella… in mancanza di rientro il raddoppio della pena.
Evidentemente si parla non di ergastolani e mafiosi…quelli avranno ed hanno un trattamento già rigido.
Infine siccome si parla di “silenzio” delle carceri ….se ci vanno i politici malandrini….vedrete come sparisce il silenzio!
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