Inutile girarci attorno, questa guerra è una gigantesca bancarotta delle élite dell’Unione. Il deserto strategico dei leader svela la domanda più scomoda: possiamo battere Putin?

I soccorritori a Kiev cercano i morti dopo il bombardamento russo di ieri

(Domenico Quirico – lastampa.it) – E adesso? Volenterosi dagli umori ultrabellicosi, che fare? Quanto gesticolare inutile, quanti incantesimi vani, quanti pronostici stupidi per l’Ucraina… Il tempo della Storia è impazzito, è fuori dai gangheri. Bisognerebbe avere il coraggio di pensare; non è mai troppo tardi per regolare i propri pendoli a Bruxelles e a Kiev a meno che non ci si riduca a contestare gli orologi. Mediocre soddisfazione degli stupidi. Si sono esaurite le infinite virtù della retorica trincerista, consumate (a furia di morti ucraini) le risorse delle armi micidiali che dovevano garantire la vittoria, sono messe a disagio le euforie angeliche e le abitudini confortevoli delle dirigenze europee che hanno trascorso giorni felici sotto i benevoli ombrelloni dell’amico d’oltreoceano; non ancora retrocesso a insopportabile “amerikano”, ora imperialista ora isolazionista ed egoisticamente autistico. Putin con l’arte consumata di giocare cinicamente con i fatti e le parole imparata ai tempi del Kgb metodicamente si prepara a raccogliere gli insanguinati e onerosi frutti delle sue avventure omicide. Trump, il cui programma è di non avere programmi, è purtroppo rimasto fermo alla lezione di feroce realismo impartita a Zelensky alla Casa Bianca («lei non ha buone carte da giocare…»).

La sgradevole realtà della sconfitta bussa alla porta. E l’Europa dei sedicenti volenterosi offre il miserando spettacolo di un improvviso, umiliato silenzio. Inutile girarci attorno: questa guerra è una colossale bancarotta delle élite dell’Unione e dei Paesi, Francia e Gran Bretagna in testa, che hanno dettato la linea dal momento in cui le truppe russe varcarono la frontiera ucraina.

Sconforta soprattutto il deserto di piani e di idee dei Capitan Fracassa del vecchio continente. Sono incapaci di riconoscere (dopo tre anni!), di fronte alla lezione impietosa di una guerra, la rivelazione delle condizioni di obsolescenza in cui versano. La vecchia e sciagurata formula «è l’Ucraina che deve decidere come e quando vorrà fare la pace» viene ruminata con delicatezze propiziatorie. Ormai si constata ci si rammarica si prende atto: si tenta ipocritamente di mantenere la bilancia esatta tra il colpevole e la vittima mentre si sta studiando il modo meno vergognoso di abbandonarla al proprio destino.

Quello che è ancora più scandaloso e crudele è ciò che si legge tra le righe, e quel silenzio vale a dire la confessione della impotenza, la rinuncia, l’accettazione del fatto compiuto. Senza la dignità di dirlo. Il riconoscere di aver fallito fa la muffa nella penombra delle cose non dette. Fino a quando sarà possibile nascondere la verità ai propri elettori? È questo il loro vero tarlo.

C’è un ostacolo nella ipotetica trattativa che appare insuperabile: qualsiasi negoziato deve necessariamente partire dalla fissazione di un confine (provvisorio) disegnato sulle posizioni in cui i due contendenti si trovano nel momento in cui scatta la fine (anche essa provvisoria) delle ostilità. Non è questa una idea balzana di Trump o un subdolo stratagemma per rendere definitivo il furto dell’amico Putin. È l’Abc della diplomazia classica, non quella creativa dei prepotenti. Perché è l’unico modo per tentare una prima breccia nel meccanismo dell’automatismo della guerra. L’autocrate russo lavora infatti per ritardarlo e guadagnare tempo: ogni giorno che passa quella linea si sposta in avanti anche se in modo appena percettibile a suo favore.

Ma accettarla, strillano gli europei, significa accettare la violazione del diritto internazionale e dar ragione alla prepotenza di Putin. Nessun increscioso ritorno ai precedenti di Monaco, non sia mai! Si tratterà dunque solo dopo il ritorno alle posizioni di partenza. Si entra così nel circolo vizioso dell’impossibile. Una alternativa certo esiste: quella di realizzare in proprio, con le truppe dei volenterosi, una guerra teologicamente giusta e necessaria con la cacciata dei soldati russi da ogni centimetro di territorio conquistato per ristabilire i confini del 2014. Ovvero ottenere la resa del Cremlino con una replica della spedizione di Crimea di Napoleone III e della regina Vittoria. La domanda a cui per tre anni gli europei, e la precedente Amministrazione americana, hanno evitato accuratamente di rispendere, è: siamo in grado di combattere questa guerra, siamo disposti a correrne il rischio, visto che è in gioco non tanto qualche chilometro di pianura ucraina e un po’di ipotetiche ricchezze minerarie ma la sopravvivenza dell’ordine internazionale, la esistenza delle democrazie e il principio che le tirannidi vanno punite ed eliminate? Bisogna fare di necessità virtù, o si rischia tutto o non si ottiene niente, ci sono bombe che liberano, ovviamente le nostre.

Trump ha risposto no. Vuole fermare la guerra sulle linee attuali. Altrimenti si disinteresserà del conflitto e in ogni caso non combatterà per l’Ucraina.

Zelensky non può che rifiutare questo cessate il fuoco: l’accettazione del principio che Donbass e Crimea si trasformino nell’Alsazia e nella Lorena ucraine e che riprenderle sarà un sogno legato a ipotetici rivolgimenti mondiali, significherebbe per lui, che fidando nelle promesse della Nato e degli europei ha garantito niente di meno che la vittoria, la fine politica e forse anche personale. Le frange ultrà del suo Paese non gli perdonerebbero un’ecatombe per nulla.

Gli europei invece diventano pianeta unico proprio nell’essere i veri sconfitti, una comunità di vertigini, riunita dall’angoscia di una responsabilità negli errori quanto mai condivisa. La guerra da soli, senza gli americani, non si può fare. L’Europa si sveglia e si rivela come sempre all’incrocio delle strade dell’essere e del non essere. Noi siano lì. Immobili.