È quasi stupefacente l’unanimità di vedute delle istituzioni sovranazionali sui disastri che produrrà l’ideologia protezionista di Trump

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Piovono rane nel pianeta sconvolto dalla follia animalesca di Trump. Come in quel vecchio film di venticinque anni fa siamo travolti dal caos. Nel venerdì nero delle Borse mondiali scorrono lacrime e bruciano miliardi.

La macchina del tempo torna indietro addirittura all’11 settembre: è dall’attacco jihadista alle Torri gemelle che i mercati non pativano un tracollo così clamoroso. È iniziata “la guerra più stupida della storia”, come il Wall Street Journal ha definito la raffica di dazi sparata dallo sceriffo di Washington contro tutto e contro tutti.

Siamo solo al secondo giorno dopo il «Liberation Day» — come lui stesso, nel Giardino delle rose, ha ribattezzato la devastante offensiva tariffaria americana — e già collassano Wall Street e il Nasdaq, il dollaro e il petrolio. A ruota vengono giù le piazze asiatiche e quelle europee, a partire da quella tricolore che come sempre soffre più delle altre.

In meno di tre mesi il listino Usa ha distrutto capitali per quasi 10 mila miliardi di dollari: basterebbe questo a dimostrare ai risparmiatori e ai consumatori di quale crimine politico-economico si stia macchiando il commander in chief tornato alla Casa Bianca più arrabbiato e dissennato che mai.

Lui non si scompone. Ricicla i suoi vaneggiamenti muskiani da finto Napoleone con il cappello di gruviera in testa: «Avremo un boom», «è ora di arricchirsi», «i cinesi sono nel panico, se la sono giocata male», «tutti ci stanno chiamando, abbiamo ripreso il comando». E così via, in un crescendo di deliri di onnipotenza che riflettono un’idea malsana delle relazioni internazionali, basate solo sulla forza e sull’azzardo come al tavolo di poker di un saloon.

Ha ragione Massimo Recalcati: questa nostra epoca genera mostri e il più inquietante di tutti è proprio lui, il “presidente tiranno”. Make America great again — mantra ipnotico, più che programma politico — non promette niente di buono. Nessuna età dell’oro, solo un decennio di carestia.

È quasi stupefacente l’unanimità di vedute delle istituzioni sovranazionali sui disastri che produrrà l’ideologia protezionista yankee. Il Fondo monetario ipotizza una frenata del Pil globale al di sotto del 3 per cento, e scrive che le nuove barriere doganali avranno l’effetto di “esacerbare le tensioni, diminuire gli investimenti, ridurre l’efficienza del mercato, distorcere i flussi commerciali e interrompere le catene di approvvigionamento”.

L’Ocse prevede un costo aggiuntivo di 500 miliardi di dollari per tutte le imprese del globo. La Fed calcola che i rincari di tutti i beni peseranno per 3.800 miliardi sui portafogli delle famiglie. Moody’s e Fitch sono certe che l’America entrerà in recessione entro dicembre. La Bce stima che il Pil dell’Eurozona, senza calcolare l’effetto degli eventuali contro-dazi, calerà di quasi mezzo punto.

Non c’è economista o politologo occidentale che non denunci il demenziale autolesionismo della stangata trumpiana. Mossa insensata, visto che travisa il significato del deficit commerciale Usa, indizio non di una truffa attuata dai partner (come millanta Trump), ma dello strapotere del dollaro (come moneta di riserva mondiale).

Mossa scriteriata, visto che in virtù dello strampalato algoritmo studiato dagli azzecca-garbugli dello Studio ovale colpisce indifferentemente l’immensa Cina e il minuscolo staterello del Lesotho, l’Unione europea e un’isoletta abitata dai pinguini.

Francis Fukuyama stavolta non teme la fine della storia, ma la sua nefasta ripetizione. Trump ci riporta alle sfere d’influenza e agli imperi del XIX secolo, dove valori e idee non contano niente e non c’è più alcuna differenza tra amico e nemico. Ci rimanda al 1930, alle barriere doganali del rovinoso Smoot-Hawley Act voluto da un altro demagogo repubblicano, Herbert Hoover, che precipitò il mondo nella Grande depressione.

Noi europei non sappiamo bene cosa fare, di fronte a questa velenosa “rivoluzione americana” che è insieme cambio di governo, cambio di regime e cambio d’epoca. Se non stessimo parlando di una svolta drammatica, che sfascia definitivamente la globalizzazione e le poche regole che avevamo faticosamente provato a darci in settant’anni, viene da dire che la pretesa più comica è quella dei trumpiani in servizio permanente effettivo.

Quelli che dicono alla Ue «però adesso non reagite». Quelli che invitano a «non farsi prendere dal panico». Quelli che invocano «ora niente rappresaglie». Come se l’Europa — per quanto divisa e derisa, delusa e confusa — fosse la cameriera del tycoon, obbligata a soddisfare tutti i suoi capricci senza mai battere ciglio.

E invece abbiamo il dovere di rispondere. Per dimostrare che questo continente ha ancora principi in cui credere e imprese da difendere. Anche a costo di costruire nuove alleanze geo-strategiche, guardando al Far East. Dobbiamo muoverci: se non ora, quando? E dobbiamo farlo uniti, perché ogni illusorio “fai da te” — in nome di “affinità personali” inconsistenti o “relazioni preferenziali” inesistenti — è stato spazzato via proprio dalla truce oligarchia d’oltreoceano.

Farebbero bene a ricordarselo, MeloniSalvini e gli stolidi membri dell’Internazionale sovranista che credono ancora nella “gentilezza” del titano. L’ha spiegato bene il segretario al Commercio Howard Lutnick, ideatore del tafazziano pacchetto-dazi: «Non importa se ci colpiscono, noi siamo il più grande cliente del mondo, perderanno… Noi trattiamo con la Ue, non con i singoli Stati: ma se Meloni vuole chiamare il presidente, faccia pure…».

Non proprio un’apertura di gioco alla Sorella d’Italia, che continua a ribadire che questa «non è una catastrofe», che ai dazi «non si risponde con altri dazi», che sono ben altri gli «auto-dazi» che l’Unione si è imposta in questi anni, dall’energia al patto di stabilità, dall’automotive al green deal “ideologico” (qualunque cosa significhi).

Come sempre è supportata con dedizione commovente dalla nutrita schiera dei soliti cortigiani agiografi e dattilografi, pronti a giurare in prima serata che con i dazi «per noi italiani non cambia niente».

La verità è che la premier — sempre sulla zattera alla deriva in mezzo all’Atlantico — non sa che pesci pigliare né su quale sponda approdare.

E con tutto il rispetto, di fronte a questo gigantesco Big Bang politico-economico in corso, non sappiamo cosa possa aver partorito il think tank straordinario riunito a palazzo Chigi, con teste d’uovo del calibro di UrsoFoti e Lollobrigida. Trump scenderà a patti, ma solo con i despoti suoi pari. Oggi Putin, domani Xi Jinping. Noi restiamo con le democrazie, o aspettiamo che cada qualche briciola dalla tavola imbandita dalle autocrazie?