La pasta di Berlusconi, Vissani fan di D’Alema e la gara tra i meloni della leader di FdI e la crema alla nocciola di Salvini

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – Agli illustri Maestri premiati potrà fare piacere o meno, del resto si tratta di uomini e donne che in quel campo hanno ben dimostrato di sapere il fatto loro. Ma sul piano del costume politico e dell’immaginario che sempre più ne rappresenta l’essenza, la cerimonia di ieri celebra l’esordio del gastrosovranismo istituzionale.
Lo conferma innanzitutto la solennità dell’ambientazione, il cortile d’onore di Palazzo Chigi allestito con doppio palco blu, quattro bandiere, due schermi, filmati professionali, musiche epiche, giovani delle scuole alberghiere in semi-uniforme e per quanto fosse di giorno, perfino una fontana illuminata da un pallido tricolore. Quindi l’insistenza della premier sull’Italia, «patria del buono e della qualità», «nazione unica al mondo», l’immancabile «orgoglio di essere italiani», «le cose straordinarie che questa nazione sa e può fare» e via di seguito, con «le radici» e «l’identità», verso una sorta di narcisismo patriottico applicato all’arte della cucina. Del resto, la stessa legge istitutiva del nuovo ordine dei Maestri, di schietto e implacabile conio lollobrigidiano, contemplava termini (“dare lustro”) che la Costituzione riserva ai senatori a vita e che qui si riferiscono a pasticceria, gelateria, pizzeria, vini, olio, formaggi e gastronomia.

Ora, non c’è dubbio che il cibo trasmette messaggi forti e presuppone, nella ridda di questo tempo, una qualche risorsa di consenso. Ma Meloni vestita di bianco che ha compostamente officiato la cerimonia è apparsa del tutto irriconoscibile dalla Meloni che in un video, per polemica, tra casse di spigole si era improvvisata “pesciarola” o che al mercato maneggiava ammiccante due meloni e sempre davanti alle telecamere ha fatto la pizza, le orecchiette e la caprese invitando i follower a consumare prodotti i-ta-lia-ni!
In altre parole: si è chiusa per la premier la fase movimentista-alimentare e si apre quella di aplomb istituzionale o, se è consentito, di regime.
Per quanto oscura possa suonare, la notazione fa i conti con anni e anni prima di inconsapevolezza e poi di performance da parte dei potenti in una specie di giostra di cui il cibo è specialissimo indicatore. Il pecorino, le mozzarelle e i caciocavalli, per capirsi, di cui i vecchi democristiani si facevano ignari testimonial delle loro origini, dalla Sardegna di Cossiga all’Irpinia demitiana; poi la polenta identitaria del Senatùr Bossi contro il kebab e gli assalti no-global ai McDonald’s; quindi le ardite sperimentazioni del duo D’Alema-Vissani, utili anche a enfatizzare il processo di scomunistizzazione del baffuto neopremier.
Per cui, guardando a ritroso, non c’è passaggio politico che non sia accompagnato dal suo risvolto gastronomico, vedi il cuoco di corte, di Berlusconi, l’attitudine tra il materno e il padronale a nutrire i suoi alleati, l’idiosincrasia anti-italiana per l’aglio e la cipolla e la piega ornamentale della sua tavola: le pennette tricolore, il gelato pure tricolore che piaceva tanto a Bush jr; a parte le cene cosiddette eleganti, dove peraltro le ingrate ragazze sostenevano si mangiasse poco e male. Fino alla breve stagione di Renzi, le riunioni della segreteria del Pd con le buste di Eataly ben in vista o la pizza a palazzo con Tony Blair.
E dispiace insistere con pedanteria compilatoria, ma alla fine degli anni 10 si fa vistosamente notare il gastrosovranismo selvaggio di Capitan Salvini, avido e feroce golosone social, iperbolico annusatore di salumi, famelico e desiderante divoratore di qualsiasi pietanza purché italiana, dalla Nutella in su e in giù, a riprova di un politico che parla come mangia.
Invano Giorgia Meloni, sia pure non del tutto inappetente, cercò di tenergli testa. Ma il destino beffardo della storia, complice la perpetua apologia del carboidrato del ministro Lollobrigida, preparava per lei la svolta istituzionale del contegno e dell’eccellenza cibaria da premiare in pompa magna. Addio alle sceneggiate, niente più mani sporche, medaglie piuttosto – anche se in maligna sincronia con i dazi.