
(di Michele Serra – repubblica.it) – Ogni femminicidio ripete, con varianti minime, la stessa matrice nonché lo stesso crimine: il maschio non concepisce la libertà della femmina e considera il corpo femminile non un soggetto inviolabile (ogni volta che dice no) ma un oggetto disponibile e/o contendibile.
Non esiste scioglimento di questo nodo se non il colpo di spada: bisogna proclamare intollerabile, intrinsecamente violento, il sentimento di possesso e di controllo di un’altra persona. Ogni donna, così come ogni persona, deve poter dire: voglio zero amori, voglio mille amori, e nessuno può arrogarsi il diritto di impedirglielo senza macchiarsi della peggiore delle violenze.
Mi sento riformista quasi in tutto, ma molto radicale su questo argomento. È un caso in cui la tradizione andrebbe messa sotto accusa per intero, a partire dalla “famiglia tradizionale”, oggi molto sbandierata dal potere reazionario, che non si muove di un centimetro, concettualmente, dall’idea del possesso “legale” del corpo altrui, e delle scelte, della vita di un’altra persona.
Se maschi di vent’anni, oggi, odiano e ammazzano colei che li rifiuta, è perché l’idea che possedere un’altra persona sia un crimine odioso non ha fatto molti passi in avanti. Andrebbe detta nelle scuole, insegnata dai genitori: guai a chi non accetta il rischio, la sfida della libertà altrui. È già un aguzzino potenziale.
La proprietà è un furto, vecchio slogan marxista fatto a pezzi dalla storia economica, è invece la chiave giusta per insegnare ai ragazzi e alle ragazze che nessuno, per nessuna ragione, può sentirsi padrone di un corpo che non è il suo. Non è un concetto così difficile. Né da insegnare, né da imparare.
Serra è riuscito a banalizzare uno degli aspetti più gravi, tragici che caratterizzano la società, si tratta ovviamente dei femminicidi.
Non si può limitare il femminicidio alla sola visione maschilista e patriarcale della società; certo influisce, ma non è la sola.
La differenza di genere che in Italia è ancora alta e su cui poco o nulla si fa e si è fatto ( a parte le quote rosa in politica, poi derogata, finita a pagliacciata per meri interessi elettorali) è un altro dei motivi che incidono, se non direttamente sui femminicidi, sul mantenere inalterata la visione patriarcale.
Poi ci sono aspetti che incidono sui femminicidi e che a scuola non si possono insegnare, non è il posto adatto.
Situazioni che hanno alla base aspetti emotivi, irrazionali quali la gelosia e lo stress, si possono gestire, pur non senza difficoltà, ma servono corsi mirati fatti da psicologi e psicoterapeuti; non a scuola; nonché di politiche sociali mirate che sono decisamente carenti in Italia.
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Serra, ovviamente la butta tutta sull’ideologia e il vittimismo femminile.
Però forse dovrebbe anche leggere qualche biografia dei tempi andati.
Per esempio, dalla vita di Totò:
Liliana Castagnola
Negli anni trenta
Le soddisfazioni professionali dell’attore non andavano però di pari passo con quelle sentimentali: nonostante il suo successo con le donne e le numerose avventure, si sentiva inappagato. Fino a quando non irruppe nella sua vita Liliana Castagnola, che Totò vide su alcune fotografie in un provocante abito di scena, rimanendone subito colpito.[51] La sciantosa, fino a quel momento, era stata costante oggetto delle cronache mondane: era stata espulsa dalla Francia con l’accusa di aver indotto due marinai al duello[52] e un suo amante geloso si era tolto la vita dopo averle sparato due colpi di pistola, uno dei quali l’aveva ferita al viso lasciandole un frammento di proiettile che le causava forti dolori e per i quali assumeva tranquillanti.[56] A causa della cicatrice, sebbene lieve, ella adottò la pettinatura “a caschetto” che le copriva guance e fronte.[51]
La donna giunse a Napoli nel dicembre 1929, scritturata dal Teatro Nuovo; incuriosita dal veder recitare l’artista napoletano, si presentò una sera a un suo spettacolo. Totò non si lasciò sfuggire l’occasione e iniziò a corteggiarla mandandole, alla pensione degli artisti dove lei abitava, mazzi di rose con un biglietto d’ammirazione, al quale lei rispose con una lettera d’invito.[51][52] Furono questi gli inizi di un’intensa, seppur breve e tormentata, storia d’amore. Sebbene fosse una donna fatale sia sul palcoscenico sia nella vita reale, la Castagnola nutriva per l’artista napoletano un sentimento sincero e passionale, cercando una relazione stabile e sicura.[56]
Dopo il primo periodo iniziarono i problemi legati alla gelosia: Totò non sopportava l’idea che Liliana, durante le sue tournée, fosse corteggiata dagli ammiratori e questo lo portò a temere eventuali tradimenti,[51] il che diede origine a continui litigi. Entrambi furono poi vittime di malelingue e pettegolezzi; la donna entrò in un profondo stato di depressione e la loro relazione si deteriorò. Liliana, accrescendo un senso di attaccamento morboso al suo uomo, pur di restargli accanto propose di farsi scritturare nella sua stessa compagnia,[51] ma Totò, sentendosi oppresso dal comportamento di lei, fu più volte sull’orlo di lasciarla, fino a quando decise di accettare un contratto con la compagnia della soubrette “Cabiria”, che lo avrebbe portato a Padova.[52]
L’epilogo fu che Liliana, sentitasi abbandonata dall’amato, si suicidò ingerendo un intero tubetto di sonniferi.[51] Fu trovata morta nella sua stanza d’albergo, con al suo fianco una lettera d’addio a Totò:
«Antonio,
potrai dare a mia sorella Gina tutta la roba che lascio in questa pensione. Meglio che se la goda lei, anziché chi mai mi ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi per l’ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so. In questo momento mi trema la mano… Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero? Antonio, sono calma come non mai. Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno. Te l’ho giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinnanzi. E, ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù per la strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?… Addio. Lilia tua.»
(La lettera[51][58])
Totò, che ritrovò il corpo esanime della donna il mattino seguente, ne rimase sconvolto: il peso della responsabilità, il non aver capito l’intensità dei sentimenti di lei e i rimorsi per aver pensato «ha avuto molti uomini, posso averla senza assumermi alcuna responsabilità»,[59] lo accompagnarono per tutta la vita, tanto che decise di seppellirla nella cappella dei De Curtis a Napoli, nella tomba sopra la sua,[N 6] e decretò che, qualora avesse avuto una figlia, invece di battezzarla con il nome della nonna paterna Anna (secondo l’uso napoletano), le avrebbe dato il nome di Liliana, come poi effettivamente fece con la figlia Liliana de Curtis.[51][56][60] Totò volle inoltre conservare un fazzoletto intriso di rimmel che raccolse la mattina del ritrovamento del corpo di Liliana, con il quale probabilmente ella si asciugò le lacrime in attesa della morte.[N 7][N 8][56][60]
Dunque, di chi è stata la colpa della morte della signora fatale?
Una donna emancipata come lei si è tolta la vita per quell’ometto tutte smorfie napoletane.
Di chi è stata la colpa, Serra?
della cultura patriarcale?
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