(Umberto Vincenti – lafionda.org) – Qualcuno ha voluto vedere in quel che è accaduto la scorsa settimana nello Studio Ovale una sorta di riedizione del drammatico confronto del 416 a.C. tra gli imperialisti Ateniesi e i debolissimi abitanti dell’isoletta di Melo, i Melii: ce lo racconta lo storico greco Tucidide che ci presenta i Melii aggrediti dagli Ateniesi che ne volevano l’assoggettamento. Gli isolani provano a resistere verbalmente appellandosi ai loro diritti di nazione sovrana; gli Ateniesi non ci sentono e avvertono di non opporsi a chi è di gran lunga il più forte. Ma i Melii non lo accetteranno e finiranno molto male: l’isola lottizzata e data ai coloni ateniesi, i guerrieri melii uccisi, le loro mogli e i loro bambini ridotti in schiavitù.

 Ora, se si vuol essere obiettivi, c’è molto poco in comune tra il racconto di Tucidide e il dialogo tra Zelensky, da una parte, Trump e Vance dall’altra. Gli U.S.A. hanno forse aggredito gli Ucraini? No. Si può dire che gli Americani vogliano annettersi il territorio ucraino? No. Ma un elemento, di non poco conto, c’è, eccome, in un caso come nell’altro, questo: le relazioni internazionali sono governate dalla potenza degli attori. Lo erano nella Grecia del V secolo a.C., lo sono tuttora nel mondo globalizzato della nostra epoca. I Melii si appellano ai loro superiori diritti qualificandoli un bene comune per tutti; altrettanto facciamo oggi che invochiamo e pretendiamo da tutti il rispetto di certi principi irrinunciabili di civiltà, tanto più che sono scritti e accettati a parole da tutti o quasi.

 Ciò non significa che, in un paio di millenni, non vi sia stato un cambiamento: sarebbe antistorico sostenere che saremmo ancora là dove erano gli antichi. L’avanzamento verso il progresso civile è innegabile. Però, in certe occasioni, le più importanti, la potenza degli Stati si sente tutta e si fa valere tutta. C’è anche chi ci prova pur non avendo poi una gran potenza; ma tutto dipende da quanta potenza abbiano gli interlocutori. Perché Starmer e Macron hanno preso loro l’iniziativa di convocare, a casa loro, i rappresentanti di alcuni, non tutti, i paesi UE? Ma perché vogliono mettersi alla testa di un’improbabile nuova coalizione dalla quale possano nascere nuovi equilibri nel palcoscenico internazionale. Ci sarebbe anche la Germania che certamente sarà della partita. E gli altri? Si accoderanno per far cosa non si sa; ma non avranno né la forza né il coraggio né la coesione nazionale per far altro.

 La potenza allora, la potenza. È la relativa potenza di Inghilterra e Francia che ha costretto l’UE ad accettare il tavolo londinese, su cortese invito di un Paese che non solo non fa parte dell’UE, ma che dall’UE è uscito per volontà del popolo. È la conferma che l’UE non è nulla e che il profilo di Ursula non è all’altezza. Soprattutto è la grande potenza (che non è detto sia la massima in terra) degli U.S.A.  ad aver fatto repentinamente cambiare avviso a Zelensky dopo lo Studio Ovale: ora è pronto a farsi guidare da Trump. Scontato che sarebbe finita così; e scontato pure che il Presidente ucraino non conti più di tanto sugli europei che pur lo invitano ovunque e fraternamente lo abbracciano. Può piacere o non piacere, ma così va ancora il mondo.

 Questa è la premessa per decifrare – o provare a decifrare –  la scena dello Studio Ovale di venerdì 28 febbraio. Che questa scena fosse stata minuziosamente preparata dagli Americani, con l’ausilio di esperti di comunicazione, è provato da come essa si presentava e da quel che si è poi consumato. Zelensky non l’aveva messo in conto o si è sopravalutato. Eppure la scena, intendo l’ambiente, era la stessa che s’era vista qualche giorno prima con Starmer: solo che quest’ultimo è il Primo Ministro inglese e non il Presidente dell’Ucraina.

 La scena ha introdotto una sceneggiata: Trump è stato in passato protagonista di un reality di grandissimo successo, Zelensky è – o era – un attore professionista. E in chiusura, e nonostante tutto, il Presidente U.S.A. questo ha detto: che hanno fatto tutti della buona televisione. Può non piacere che così sia stato impostato un incontro di gran rilievo. Però potremmo anche valutarne, positivamente, la trasparenza e la sua assoluta congruenza con quel che oggi è il mondo: in buona parte un palcoscenico planetario mass-mediatico.

 Trump aveva l’obiettivo, evidentissimo, di costringere Zelensky ad accettare certe condizioni che non conosciamo, ma che dovevano essere state concordate con i Russi. Per arrivare a una pace, giusta o ingiusta non possiamo dire, o anche a una tregua. Il Presidente U.S.A. si è condotto, nella prima parte dell’incontro, con congruenza: se dobbiamo metterci d’accordo con Putin, questo egli ha spiegato a un certo punto a Zelensky, io non posso accettare che qua, a casa mia, tu continui ad insultarlo. È il nesso fondante della tecnica retorica di costruzione di un discorso: non vi devono essere salti logici e occorre invece rispettare il principio di pertinenza.

 Quando poi Vance si è lamentato del contegno irrispettoso di Zelensky, questi ha cercato di deviare e ha introdotto un argomento che ha violato ancora il principio di pertinenza: improvvisamente ha balenato l’eventualità, nei fatti quasi un assurdo, che in futuro l’oceano possa non proteggere gli U.S.A. e gli Americani se ne sarebbero accorti. Allora, concludeva Zelensky, «Dio vi benedica». Argomento non pertinente, di più: il Presidente ucraino ha ignorato il tema in discussione parlando d’altro (ignoratio elenchi) e, in aggiunta, quell’argomento era prevedibilissimo che fosse recepito come un insulto da Trump e, probabilmente, da molti Americani. Scontata la reazione piccata del Presidente U.S.A.: «non dirci cosa sentiremo».

 Si potrebbe continuare nell’autopsia di questo scontro verbale. Però l’errore più grave commesso da Zelensky è di non avere avuto piena cognizione del luogo in cui si trovava e della situazione in atto, sulla quale hanno inciso molto i caratteri dei protagonisti. Prima che l’incontro cominciasse il senatore repubblicano Lindsey Graham, sostenitore dell’Ucraina e di Trump, aveva raccomandato a Zelensky di usare l’argomento della captatio benevolentiae: in pratica di mostrarsi affabile, rispettoso, fiducioso verso l’amministrazione Trump per stemperare il clima di conflitto competitivo che si sapeva sarebbe stato nell’aria dello Studio Ovale fin dall’inizio. In più si sapeva che uno come Trump non è per niente insensibile ai complimenti e ai modi in cui lo si tratta: Macron lo aveva tenuto ben presente quando aveva incontrato Trump. Perché prima di lanciare un qualunque messaggio, specie se importante o molto importante, non può mai prescindersi dal calcolare i toni di colui al quale quel messaggio sia diretto.

 Si deve riconoscere che la posizione di Trump era molto più comoda e non c’è bisogno di spiegare perché: in mano aveva continuamente una briscola (appunto trump), quella del suo gran potere e della gran potenza degli U.S.A. e questa briscola il Presidente U.S.A. ha messo sul tavolo più volte e ha chiuso la discussione. Ha semplicemente ostentato una franchezza che non teme le sue conseguenze. Alla fine Zelensky lo ha capito o lo ha accettato: allontanato dallo Studio Ovale, chiedeva più volte di riaprire il confronto. Troppo tardi. Ora parrebbe disposto a mettersi nelle mani di Trump (meno degli europei).