Dovremo avere un ruolo d’apripista nella ricerca di soluzioni negoziali. Non sempre questa lezione viene messa a frutto dai nostri governanti

Coltivare la pace in tempo di guerra

(di Michele Ainis – repubblica.it) – «L’Italia ripudia la guerra»: così sta scritto nell’articolo 11 della Costituzione. Ma è ancora vero mentre il mondo si riarma? Mentre il piccone di Trump s’abbatte su tutte le istituzioni della legalità internazionale, dall’Oms alla Corte penale? Mentre le potenze imperiali (Usa, Russia, Cina) si dividono il pianeta? «Si vis pacem, para bellum», dicevano i nostri antenati: se vuoi la pace, prepara la guerra. È di nuovo questo il motto dell’Europa, del continente di cui facciamo parte. Ma si può ripudiare la guerra preparandosi alla guerra? No, a meno di cacciarsi in un ossimoro, in una contraddizione in termini. Sicché la formula dell’articolo 11 — ha osservato mestamente Achille Occhetto su Repubblica — è divenuta «una frase sbiadita e quasi irridente».

Non che quella formula sia mai stata applicata nel suo significato letterale, lungo i tornanti della nostra storia. I primi commenti alla Carta del 1947 ne offrivano un’interpretazione univoca: il «ripudio» della guerra ammette la sola guerra difensiva, e quest’ultima a sua volta si giustifica soltanto per resistere a un’aggressione esterna, consumata sul territorio dello Stato. Ma quell’interpretazione fu già messa in crisi attraverso l’adesione dell’Italia al patto Nato (nel 1949), dal quale è scaturito un obbligo di mutua assistenza militare quando fosse aggredito uno degli Stati contraenti. E successivamente venne rovesciata durante le numerose operazioni belliche oltre confine svolte dalle nostre forze armate: «guerre umanitarie», le definivamo sfidando il paradosso. Ma pur sempre guerre, vietate dalla lettera dell’articolo 11.

Tanto che all’epoca dei bombardamenti in Kosovo (nella primavera del 1999) la Lega Nord e la sinistra radicale ne denunziarono la manifesta violazione; e allora un esponente della maggioranza — Clemente Mastella — intervenne in Parlamento suggerendo di riformulare l’articolo in questione, per adattarlo alle nuove circostanze. Non se ne fece nulla, però cominciò a diffondersi una nuova lettura dell’articolo 11. Quella avallata da Leopoldo Elia, insigne costituzionalista che sedeva sui banchi del Senato: giacché — si disse — il diritto internazionale legittima l’uso della forza, e da ciò deriva l’ampliamento della guerra lecita.

Ma adesso è tutta un’altra storia. Non c’è la parola dell’Onu, non c’è forse nemmeno più la voce del diritto internazionale, dopo la crisi di legalità aperta dall’invasione russa in Ucraina. Si muovono le grandi potenze, o qualche Stato europeo in ordine sparso. E si muovono con una chiamata alle armi. Trump pretende che i membri della Nato incrementino la spesa per la difesa dal 2 al 5 per cento del loro prodotto interno lordo. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, propone d’attivare la clausola di salvaguardia del patto di stabilità, per aumentare il budget delle spese militari. E nel frattempo l’industria delle armi prospera, ingrassa, macina profitti. Con numeri record, per il terzo anno di fila. Nel 2024 i ricavi delle cinque maggiori aziende statunitensi hanno superato 200 miliardi di dollari. La cinese Kuang-Chi Technologies ha registrato un incremento in borsa del 198 per cento. Mentre in Italia il titolo Leonardo è ai suoi massimi storici, con un balzo del 54 per cento negli ultimi sei mesi.

Ecco, l’Italia. Dobbiamo correggere l’articolo 11, per porlo in sintonia con questo tempo di guerra? Nel 2018 Giorgia Meloni firmò una proposta di revisione costituzionale per introdurvi un timbro sovranista, arginando l’applicazione dei trattati europei. Ma è l’opposto che bisogna fare. Anzi, non fare. I principi fondamentali della Costituzione sono sacri, guai a metterci le mani. Segnano però una direzione, che va adattata alle stagioni della storia. In questa stagione disgraziata è l’ultima parte dell’articolo 11 a indicarci la via: «promuovere la pace e la giustizia fra le Nazioni», accettando limiti alla nostra sovranità. Sta qui la vocazione costituzionale dell’Italia, che adesso siamo chiamati a riscoprire. Trasformando il ripudio della guerra, da obbligo puramente negativo, in energia fattiva, in una somma d’azioni e di reazioni. Anche riarmandoci, se serve a dissuadere i signori della guerra. Ma con un ruolo d’apripista nella ricerca di soluzioni negoziali, di compromessi che favoriscano la pace. Non sempre questa lezione viene messa a frutto dai nostri governanti.