Non c’è conflitto aperto da Donald Trump che non veda la premier schierata al suo fianco

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Saranno soddisfatte, adesso, le anime candide persuase che Meloni sarebbe stata la Trump-card vincente da giocare nelle relazioni tra vecchia Europa e nuova America. Com’era facilmente prevedibile — per chi non fosse del tutto accecato dalla malafede — non c’è conflitto aperto da Donald che non veda Giorgia schierata al suo fianco.

L’offensiva parallela e incrociata tra Washington e Roma contro la Corte penale internazionale è paradigma della “dottrina Maga”, smerciata al popolo Usa dal tycoon rieletto alla Casa Bianca, e della “dottrina Mega”, riciclata ai popoli Ue dal super genius Elon Musk e prontamente abbracciata dalla Sorella d’Italia persino al Palazzo di Vetro dell’Onu.

La scintilla che fa scoppiare il Big Bang è la stessa. Un kombinat tecno-politico sovraordinato a qualunque altro potere, che rivendica il diritto a non avere obblighi e a non riconoscere vincoli, né all’interno né all’esterno dei suoi confini ristabiliti e riaffermati dal sangue e dal suolo. Un fronte comune delle destre estremiste e occidentaliste — da Orbán a Milei, passando per Alice Weidel Tommy Robinson — pronte a sfasciare i presidi della cooperazione internazionale e i principi dell’ordine liberale.

Alleanze, commerci, migrazioni, multilateralismo, diritti umani, solidarietà tra le democrazie: ferraglia arrugginita del mondo che fu, basato su regole codificate e istituzioni condivise. Da rottamare in fretta, in nome di un “eccezionalismo americano” riveduto e corretto e di una subalternità europea rabberciata e rassegnata.

Le sanzioni di Trump contro i membri della Corte penale internazionale — “colpevole” di aver emesso ordini d’arresto per Netanyahu e Gallant — è solo un’altra tappa del cammino che, tra la Grande muraglia al confine con il Messico e la bandiera a stelle strisce su Marte, porterà la “Nazione indispensabile” al traguardo dell’America First. L’ha detto lui stesso, all’Inauguration Day del 20 gennaio: «Non riusciranno a intimidirci, nulla ci ostacolerà».

Il Tribunale dell’Aia è un ostacolo, quindi va colpito. Missione pericolosissima, che tra l’altro avvicina l’America di Trump alla Russia di Putin: anche l’uomo del Cremlino considera tossica quella Corte, “rea” di avergli scagliato contro nel marzo 2023 un sacrosanto mandato di arresto per crimini di guerra in Ucraina.

Così tra le due antiche superpotenze si realizza un’inquietante convergenza, autarchica e autocratica, in nome dell’odio verso tutti gli organismi multilaterali che intralciano i reciproci disegni neo-imperiali. Il G7 e il G20. L’Onu che non combina niente e l’Oms che è “una truffa”. Il Wto che favorisce la Cina e l’Usmca che avvantaggia il Canada. Gli accordi di Parigi sul clima e i patti sul nucleare iraniano.

Tutta sabbia negli ingranaggi della macchina yankee. Come la Nato, che avrà senso solo se ogni alleato assicurerà un aumento fino al 5% del Pil delle sue spese militari (che poi vuol dire solo acquisto di armi made in Usa).

Dietro a tanto delirio di onnipotenza c’è anche il marketing politico: l’inviato di dio alla Casa Bianca è pur sempre un piazzista, come dimostrano il suk avviato con Sheinbaum e Trudeau e la sparata da palazzinaro newyorkese su Gaza trasformata nella ridente Miami mediorientale. Qualcosa si perderà per strada, in tanta “distruzione creativa” esibita finora dall’architetto del caos. Ma il modello è quello già previsto da George Friedman: la “tempesta prima della calma”, prodromica a un decennio di rivoluzionaria egemonia stars and stripes.

È giusto che la Corte penale reagisca all’ordine esecutivo trumpiano. È altrettanto giusto che Von der Leyen e Costa facciano sentire la voce dell’Unione, rivendicando il rispetto dei giudici dell’Aia. Ed è ancora più giusto che 79 Paesi Onu firmino un duro altolà agli Usa, che minacciano di “erodere lo stato di diritto internazionale”. Purtroppo da questo sacrosanto atto d’accusa — firmato da Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna — si è sfilata proprio l’Italia, non a caso affiancata dall’Ungheria.

Così il cerchio si chiude. Anche Meloni, giuliva cheerleader di Trump, ha dichiarato guerra alla Corte penale internazionale, che ha osato prima chiedere l’arresto del libico Almasri proprio mentre era sul nostro territorio, e poi esigere chiarimenti sul rilascio e il rimpatrio del criminale a Tripoli, con volo di Stato e con tutti gli onori.

L’osceno scandalo politico sul modo in cui palazzo Chigi sta gestendo il caso lo stiamo vedendo, in Parlamento e fuori. Alla menzogna del ministro dell’Interno, che ha giustificato la liberazione e l’espulsione del libico per questioni di «sicurezza nazionale», si è aggiunta la vergogna del ministro della Giustizia, che ha detto il falso e si è auto-smentito più volte. La premier come sempre si nasconde, dietro le cortine fumogene dei soliti complotti giudo-pluto-massonici e le veline criminogene dei sedicenti giornalisti ormai promossi lacchè della propaganda di regime.

Ora — insieme alla denuncia girata dal procuratore Lo Voi al Tribunale dei ministri — pende sul governo anche quella inoltrata proprio ai giudici della Cpi da un rifugiato sudanese. Non sappiamo che iter seguirà anche questo ulteriore filone d’indagine. Sappiamo però che le destre al comando, in pieno bau bau ketaminico, usano contro le toghe bolsceviche europee lo stesso format cospirazionista già collaudato contro le toghe rosse italiane.

Nordio, invece di tornarsene a casa a Venezia a studiare l’inglese e a ripassare il diritto comunitario, continua penosamente a cavillare e a rimpallare le accuse ai magistrati, tra un pizzino a Montecitorio e uno sberleffo a Un giorno da pecoraTajani, ministro degli Esteri e finto “moderato” post-berlusconiano, fa anche di peggio: sostiene che i giudici dell’Aia non sono «la bocca della verità» e che l’Italia dovrebbe «aprire un’inchiesta sulla Corte penale internazionale».

Una follia da patto di Visegrad, al quale il Belpaese si iscrive ormai di fatto. Il “no” al documento Onu contro le sanzioni di Trump alla Cpi lo certifica definitivamente: neanche alle Nazioni Unite l’Italietta meloniana si schiera con i padri fondatori d’Europa.

Neanche al Palazzo di Vetro vota con Macron e Scholz, Starmer e Sánchez. Il suo vero e unico partner — in una Ue di nanetti che il gigante americano vuole debole e divisa — è sempre e solo Orbán. È “l’amico Viktor”, dopo l’ennesimo strappo nell’Unione, a celebrare con Giorgia i venti nuovi che soffiano dall’Atlantico, già ribattezzati con gioia “il Trump-tornado”.

Così muore la nostra politica estera. Così svaniscono decenni di adesione al multilateralismo e alle istituzioni internazionali. Così Meloni, per conto dell’egoarca di Washington, diventa l’interprete più fedele di quello che Sergio Mattarella definisce il «vassallaggio felice» al quale si sta condannando l’Europa. Ed è contro questo destino, contro questo cambio d’epoca, che le sinistre unite dovrebbero battersi e dimostrarsi all’altezza di una sfida che è insieme politica e culturale.

Nelle stesse ore in cui la Sorella d’Italia e la sua muta di cani abbaiavano contro tutte le magistrature del globo terracqueo, il Capo dello Stato nel suo discorso all’Università di Marsiglia ricordava le tragedie del Novecento. Le regressioni democratiche e lo «spirito di Monaco» che dopo il 1938 ci portò alla Seconda guerra mondiale. Le virtù del multilateralismo e della solidarietà che ci hanno garantito settant’anni di pace. E ora, di nuovo, «la disillusione verso i meccanismi di cooperazione nella gestione delle crisi». Il rischio di finire schiacciati «tra oligarchie e autocrazie. Il pericolo mortale dell’abbandono degli organismi internazionali e del ripudio delle norme che ci governano». L’urgenza di salvaguardare, riformandolo, «l’ordine multilaterale».

Tutto questo “patrimonio” è ormai inservibile, per i truci trumpisti tricolori. Solo ciarpame, pronto per la discarica della storia.