Il premierato porta con sé una serie di rischi. Da qui la nuova strategia: riscrivere la legge elettorale

Giorgia Meloni e Sergio Mattarella

(di Michele Ainis – repubblica.it) – L’idea è in linea con le nostre (peggiori) tradizioni: scrivere la Grande Riforma senza scriverla, senza cambiare d’una virgola il testo della Costituzione. Introdurre un presidenzialismo «de facto», secondo la formula a suo tempo brevettata da Giorgetti, quando Mario Draghi sembrava in procinto di balzare da palazzo Chigi al Quirinale. E perché non anche un presidenzialismo “di diritto”, messo nero su bianco nella Carta? Non era forse questa l’ambizione che ha generato il premierato? E non è adesso una sconfitta rinunziarvi?

Dipende. E comunque meglio perdere una battaglia oggi che la guerra domani. Il premierato sega i poteri di Mattarella, arduo sfidare l’uomo politico più popolare del Paese. In secondo luogo culminerà in un referendum, con tutti i rischi del caso (Renzi docet). In terzo luogo questa riforma ha aperto crepe nella maggioranza (vedi le critiche di Marcello Pera e vari altri), ma ha compattato le opposizioni, unite sul fronte del no. Da qui, a quanto s’apprende, la nuova strategia: ottenere il presidenzialismo senza dirlo, senza dichiararlo. Basterà riscrivere la legge elettorale, d’altronde l’abbiamo già cambiata quattro volte negli ultimi trent’anni.

Ma forse l’autentica ragione di questo colpo d’ingegno sta nel nostro ingegno nazionale, nell’inclinazione a scegliere la via più obliqua e più indiretta per raggiungere la meta. Parlarsi chiaro mai, da noi non s’usa. Né s’usa procedere osservando le regole costituite. Piuttosto le aggiriamo, fingiamo di rispettarle mentre invece le frodiamo, ne violentiamo l’anima. È il fenomeno della «fraude à la Constitution», come lo definì Georges Liet-Veaux; e alle nostre latitudini si ripete di continuo.

Per esempio: la Costituzione richiede che le leggi siano approvate “articolo per articolo”, allo scopo di garantirne l’omogeneità; ma per effetto dei maxiemendamenti ogni articolo si suddivide in centinaia di commi, sequestrando la libertà di voto dei parlamentari e rendendo le norme italiane del tutto incomprensibili. Senza dire dei decreti legge, strumenti eccezionali che i governi di destra e di sinistra hanno trasformato nel metodo ordinario della legislazione. O senza menzionare tutte le altre circostanze che passo dopo passo ci hanno proiettato in una capocrazia, una democrazia del capo.

Sennonché al capo non basta comandare; pretende anche un elisir di lunga vita, la garanzia di regnare incontrastato per tutta la legislatura. Da qui, dunque, l’idea di servirsi della legge elettorale. Come? Con un premio di maggioranza, per blindare il vincitore e porre in catene il vinto. Anzi due superpremi, a quanto pare: il 51% dei seggi alla coalizione di liste collegate che raggiunga il 35% dei voti; il 55% dei seggi se invece la coalizione tocca la soglia del 40%.

È la riesumazione — sotto mentite spoglie — del Porcellum, la legge elettorale che a suo tempo la Consulta gettò nel cestino dei rifiuti. Un Porcellinum, potremmo definirlo. Ma è pur sempre carne di maiale.

C’è allora un pugno d’osservazioni da lasciare sul taccuino. Primo: premi e cotillon non possono falsare la volontà degli elettori, drogando il loro voto. Se si desidera un’investitura chiara da parte del corpo elettorale, l’unica soluzione sta nel doppio turno, come avviene nei Comuni. Ma a destra ne diffidano, temendo che quel sistema avvantaggi la sinistra. Come se non ci fossero migliaia di sindaci di destra fra i nostri campanili.

Secondo: se la nuova legge elettorale mira a introdurre, surrettiziamente, un regime presidenziale in luogo della nostra Repubblica parlamentare, allora quella legge è in contrasto con la Costituzione, è incostituzionale. Nessuna interpretazione estensiva o evolutiva delle sue norme può mai determinare un cambio di regime, altrimenti la Carta costituzionale diverrebbe carta straccia. Né basterà evocare il fantasma della Costituzione “materiale” per giustificare la violazione delle regole formali. Al contrario: il divario fra due Costituzioni — una scritta, l’altra praticata — offusca il sentimento stesso della legalità.

Terzo: «il meccanismo premiale è foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, compromettendo l’eguaglianza del voto». Sono le parole con cui la Consulta annullò il Porcellum (sentenza n. 1 del 2014). E con un premione del 15% dispensato dalla prossima legge elettorale? Le toccherà ripetersi, ma non le costerà fatica.