Dai migranti deportati dagli Stati Uniti di Trump al torturatore libico Almasri liberato dall’Italia di Meloni, ecco il filo nero che unisce queste due immagini

Migranti in catene salgono su un volo militare: è la foto postata dalla Casa Bianca

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Le immagini dicono più delle parole. Ce ne sono due, in queste ore, che fotografano al meglio l’era del trumpismo-melonismo nella quale ci stiamo gioiosamente inabissando, noi vecchi “democratici” zavorrati dal carico delle nostre stupide valigie marca woke, ancora stipate di futili valori morali e inutili principi costituzionali.

La prima immagine l’ha postata la Casa Bianca: nove poveri cristi, immigrati e incatenati, in fila verso l’aereo militare che li rispedirà nel Paese dal quale erano partiti per inseguire una speranza. Sotto i volonterosi carnefici del tycoon riportano l’annuncio: “I voli per le deportazioni sono iniziati”. Sopra scolpiscono lo slogan: “Promesse fatte, promesse mantenute”.

La seconda immagine l’ha pubblicata l’Autorità di Tripoli: il comandante libico Almasri, felice come una Pasqua, che scende da un Falcon tricolore. La didascalia recita: “Il momento dell’arrivo del capo dell’Ufficio della Polizia giudiziaria all’aeroporto di Mitiga”. La folla festante lo porta in trionfo, gridando irridente uh uh al talian, cioè “uh uh gli italiani”.

Dietro questa duplice, fetida iconografia c’è una comune, mefitica ideologia. Il filo nero che le unisce è la costruzione dello stesso nemico, lo stigma razziale sullo stesso capro espiatorio: lo straniero.

Su di lui — ultimo anello nella catena del valore globale — i vari commander e conducator della rinata Internazionale sovranista possono scaricare le colpe della disgregazione nazionale, dell’insicurezza sociale, della macelleria occupazionale. Attraverso di lui — esattamente come dice il Mussolini di Scurati, “figlio del secolo” — i patrioti al potere possono garantirsi il consenso dei penultimi “trasformando la loro paura in odio”.

Nulla di nuovo sotto il sole. La grancassa cattivista contro l’apposito migrante suona da sempre, nella banda delle capocrazie autoritarie e delle destre xenofobe del pianeta. Ma ora, con il ritorno in scena di un Trump più potente e dispotico di quattro anni fa, la lotta all’immigrazione diventa dottrina di governo, condivisa ed esibita, predicata e praticata.

In America lo stiamo vedendo dagli ordini esecutivi del presidente rieletto: confine meridionale “emergenza nazionale”, 1.500 uomini dell’esercito lungo la frontiera messicana, mandato alle agenzie federali di “respingere e rimpatriare gli irregolari”, ordine alla Homeland Security di condurre arresti mirati e ai procuratori federali di inquisire la polizia locale che non esegue gli ordini. Il risultato concreto, da mostrare come trofeo al popolo americano, è la foto di quei nove deportati (questa è la traduzione giusta, anche se disturba gli irenici chierici di casa nostra, convertiti al culto Maga senza dirlo).

Il virus trumpiano stavolta è più letale. Previa appropriazione indebita del mito Luther King, inocula le tossine della discriminazione nelle vene della più grande post-democrazia del mondo. La revoca del Dei, il protocollo che obbligava l’apparato federale a rispettare diversità, equità e inclusione. Il ripristino delle differenze salariali stabilite in base al genere e al colore della pelle.

Cos’è questa roba, se non razzismo in purezza o maccartismo riveduto e corretto, non più per la canaglia comunista ma per la feccia afro-ispanica? «Agli stranieri daremo un messaggio chiaro: rimani in Messico…». Sono parole del nuovo egoarca, pronunciate nello stesso Campidoglio del tentato golpe del 6 gennaio 2021.

È bastato questo per far risvegliare mostri che credevamo sepolti: il Ku Klux Klan inonda il Kentucky di volantini, con lo Zio Sam che prende a calci una famigliola di straccioni e una scritta che dice: “Avoid deportation — leave now”. Evita la deportazione, vattene subito: come da anatema presidenziale.

Anche in Italia vediamo all’opera da tempo i cinici impresari del risentimento travestiti da leader di partito, pronti a giocarsi per un pugno di voti la vita dei disgraziati che affogano nel Mediterraneo. È per questo basso lucro politico che abbiamo dovuto sopportare quella foto di Almasri, assassino arrestato su richiesta della Corte penale internazionale, ma subito rilasciato e rimpatriato con volo di Stato perché “garante” del nostro patto scellerato con la Libia.

Paghiamo la sua Guardia costiera, foraggiamo le sue Forze speciali, stacchiamo un lauto assegno per il gas che ci manda via Green Stream, gli garantiamo diritti sul tanto petrolio che l’Eni pompa dai suoi deserti, e in cambio quel regime non fa salpare dalle sue coste i barconi pieni di profughi. Se li tiene là, nei lager di Ain Zara e di Mitiga, dove proprio l’aguzzino Almasri torturava e ammazzava a suo piacimento.

I giudici dell’Aja lo volevano in galera per questo. Ma non avevano considerato Nordio e Piantedosi (il primo è ancora lì che valuta mentre il secondo — manco fossimo su Scherzi a parte — ci spiega che il libico presentava «elevata pericolosità» ma proprio per questo, invece di assicurarlo alla giustizia, l’abbiamo scarcerato). Soprattutto non avevano fatto i conti con Meloni: pur di tenere buoni i nipotini di Gheddafi — pronti a chiudere i rubinetti dell’energia e a riaprire quelli della migrazione — la Sorella d’Italia straccia il diritto internazionale e rimette in libertà un criminale.

Ma in fondo, perché indignarsi? Cos’è il Piano Mattei, se non uno scambio perverso sulla pelle di un’umanità disperata? E cos’è l’Operazione Albania, se non la cessione in outsourcing del dramma migratorio? Certo, la premier si è rimangiata in un amen il giuramento solenne di Cutro: daremo la caccia ai trafficanti di uomini «in tutto il globo terracqueo». Stavolta al trafficante, più che la caccia, abbiamo dato una medaglia. Pazienza.

La “cultura” e la postura meloniana non cambiano, si rafforzano grazie alla spinta trumpiana. L’oligarca in chief si serve e si servirà dell’amica Giorgia per dividere l’Europa e cementare il fronte sovranista. Lei lo applaude da brava cheerleader, unica governante Ue invitata all’Inauguration Day. Lui la ripaga coprendola di elogi, come il Doge Musk e suo fratello in visita a palazzo Chigi con il cappello da cowboy.

The Donald è un booster per tutte le peggiori destre reazionarie. Non solo nell’Unione, dove alza la voce Orbán e la abbassa Von der Leyen, che a Davos risponde alla sfida epocale di Trump con una minestrina riscaldata. Ma anche Javier Milei, che esalta tutti «gli alleati che lottano per la libertà», saluta «il meraviglioso Musk» e omaggia «la feroce dama italiana Giorgia», che detto dal loco argentino con la motosega fa un certo effetto.

Sarà difficile arginare questa marea di ferocia, che attraversa l’Atlantico e tracima nel Vecchio Continente. Ma non tutto è perduto. Non qui, dove la sinistra europea è muta e quella italiana si perde tra i disagi dei cattolici e i diari della motocicletta. Lì, piuttosto. Pamela Hemphill, detta “Nonna Maga” perché partecipò all’assalto a Capitol Hill, rifiuta la grazia dicendo «non è giusto, quel giorno abbiamo infranto la legge e dobbiamo pagare».

Mariann Budde, vescova di Washington, alla National Cathedral dedica a Trump un sermone potentissimo: «Ho un’ultima supplica per lei, signor presidente, che ha sentito su di lei la mano provvidenziale di un Dio amorevole: nel nome di quel Dio, le chiedo di avere misericordia per i bambini gay, lesbiche e transgender in tante famiglie… e poi per le persone che raccolgono la nostra verdura, puliscono i nostri uffici, lavorano nelle fattorie di pollame e di carne… la maggior parte degli immigrati non è composta da criminali, lavorano duramente, pagano le tasse e sono buoni vicini… Abbia misericordia per coloro che nelle nostre comunità temono che i loro genitori vengano deportati, aiuti coloro che fuggono da zone di guerra e persecuzione a trovare accoglienza qui». Una preghiera di struggente bellezza.

Peccato che Trump l’abbia guardata e ascoltata con disprezzo, mentre il fido Musk vomitava su X il suo gaudio perché ora “gli Usa smetteranno di corrompere le organizzazioni religiose per facilitare l’immigrazione illegale”. In quel momento, evidentemente, il Dio di Donald e Elon era impegnato altrove. E il Dio di Giorgia, dov’è?