(Di Stefano Patuanelli* – ilfattoquotidiano.it) – Caro direttore, quando deciderà l’Europa di svegliarsi? Sembrava a molti osservatori internazionali che il superamento del periodo pandemico avesse consegnato l’Europa a una nuova fase. Il debito comune e il piano varato dalla Commissione, assieme all’interventismo della Bce, aveva proiettato l’Ue in una fase matura di solidarietà e di strategia economica condivisa. Si erano riusciti a superare gli steccati ideologici e materiali di concorrenza sleale tra Stati membri, storicamente uniti da una moneta unica ma separati da politiche d’investimento e fiscali profondamente divergenti.

Per una volta, il mantra dell’export a scapito dei salari (coltivato in particolare dalla Germania, spesso in violazione delle stesse regole europee), pareva aver lasciato spazio a quello di una crescita basata sulla domanda interna e sugli investimenti produttivi. L’Italia aveva tentato di declinare questa nuova fase esaltando le sue eccellenze, ovvero le Pmi, fornendo loro liquidità e prospettive pluriennali d’investimento. Dallo shock pandemico ne siamo usciti meglio di tutti, recuperando prima e meglio rispetto a Francia e Germania. Poi, tanto in Italia quanto in Europa, qualcosa è cambiato.C’è stata una sorta di restaurazione indotta, accelerata dall’invasione russa in Ucraina. Improvvisamente, quanto messo in campo nel periodo pandemico è stato declassato a “eccezione alla regola”, sia tecnicamente sia culturalmente. L’Ue è tornata a parlare la lingua degli egoismi, ridivenendo un nano politico al cospetto di Cina, Russia e Usa: incapace d’investimenti comuni, schiava dei debiti e di regole economiche assurde e antistoriche, scritte nero su bianco da un Patto di Stabilità siglato da tutti i governi che, nel mentre, cambiarono i protagonisti che avevano coltivato il seme del cambiamento.

Mentre il resto del mondo stava ritrovando un equilibrio, anche per fronteggiare un’Ue tornata protagonista, le varie istituzioni del Continente erano impegnate a cambiare colori politici e a prepararsi alle campagne elettorali nazionali e comunitarie. E nel Paese più potente del mondo tornava a farsi strada Donald Trump. Il presidente Usa, tra i principali oppositori alle politiche messe in campo durante la pandemia nel mondo, ha dichiarato che intende riequilibrare la bilancia commerciale nei confronti dell’Ue. Pensare che sarà solo una questione legata ai dazi è riduttivo. L’economia europea, e quella tedesca che ne è la sua storica locomotiva, ha le sue basi impiantate nel mercantilismo spinto: alte esportazioni e bassi salari; avanzi primari e riduzione del debito in senso assoluto; abbattimento della domanda interna. In questo quadro criticabile, per ridurre il rapporto debito/Pil ha infinitamente più peso il numeratore rispetto al denominatore.

Con queste premesse la scelta politica e culturale imposta da Trump potrebbe dunque dare il colpo di grazia alla concezione economica germano-centrica dell’Europa, già messa alla prova dall’innalzamento del costo del gas. Assieme alla Germania, per connessioni e conformità, il Paese che più verrebbe colpito è l’Italia. Storicamente connessi ai tedeschi, siamo tra i principali Paesi trasformatori del mondo e seconda manifattura dell’Ue. Dunque, altamente sensibili ai costi delle materie prime. Sulla crescita dei salari, invece, abbiamo già interpretato il verbo essendo il fanalino di coda.

Se l’Europa vorrà esistere tra 5 anni, s’impone oggi un ragionamento sulle prossime regole economiche che guideranno il continente. La Commissione e i suoi esponenti economici hanno fallito, occorre quanto prima ridiscutere un folle Patto di Stabilità che altro non è se non un assist alle economie extra-Ue.

Occorre ridefinire il ruolo della Bce, che non può limitarsi ad essere un mero guardiano dell’inflazione (peraltro poco efficace). Occorre, insomma, ridisegnare il ruolo delle maggiori istituzioni Ue prima che queste vengano cancellate dalla storia.
* Capogruppo al Senato del M5S