
(FLAVIA PERINA – lastampa.it) – Chissà come se lo immagina Denise Cutolo l’amore dei suoi genitori: a diciassette anni ha il diritto di figurarselo come le pare anche se speriamo (per lei) che le vada meglio. Conoscere e sposare appena maggiorenne un ergastolano al 41 bis, condividere un solo bacio in vent’anni, farci una figlia con l’inseminazione artificiale, crescerla facendo avanti indietro da carceri di massima sicurezza, va bene per la leggenda ma forse meno per la vita reale. E tuttavia anche questa incredibile love story è un pezzo del mito Cutolo, che a quanto pare resiste nei decenni anche se un po’ sbiadito rispetto all’epoca in cui ‘O Professore tutto poteva, tutto sapeva, tutto controllava, pure se carcerato per gran parte della sua vita di adulto, facendo e disfacendo (talvolta a colpi di pistola) sindaci, affari, appalti e trasformando il racconto della camorra nella saga di nuovi Robin Hood dediti ad «aiutare i deboli quotidianamente calpestati dai potenti e dai ricchi».
Ora c’è indignazione per i commenti al video di Denise su TikTok che osannano la memoria del capoclan. E di sicuro ha ragione chi invoca la necessità di «una forte spinta culturale che aiuti le persone a liberarsi dalla mentalità criminale», ma di sicuro non sarà l’introduzione del reato di apologia mafiosa a cancellare la leggenda del Cutolo onnipotente. È troppo antica, troppo articolata. Consolidata non solo dagli affiliati al clan ma anche dalla politica, che solo una generazione fa si inchinò al boss per la prima trattativa Stato-clan annoverata dalla nostra storia: chiedere (e ottenere) dalle Brigate Rosse la liberazione dell’assessore alla Ricostruzione Ciro Cirillo.
Cutolo è il Don Raffaè di Fabrizio De André che a Poggioreale riceve l’omaggio del brigadiere incantato dalla sua prestanza e dal suo cappotto cammello. Cutolo è (si diceva) il «Dio c’è» segnalato da migliaia di graffiti su tutte le autostrade italiane negli anni ’80 e ’90. Cutolo è quello che santifica i suoi manovali facendoli giurare da «cavalieri della camorra, signori del bene, padroni della vita e della morte». E le centinaia di omicidi che ha ordinato, compresi quelli compiuti personalmente e spesso per futili motivi, non sono stati abbastanza per farne un mostro nella considerazione collettiva.
Prendersela con Denise o con i suoi ultimi fan sembra un facile esercizio. Magari sarebbe più importante capire perché certe star dell’anti-Stato, certi padrini, gente che aveva al soldo killer delle carceri come Pasquale Barra, capace di azzannare il fegato di Francis Turatello dopo averlo ammazzato a coltellate, restano circondati da un’aura leggendaria, e non solo nel Pantheon della malavita. Hanno umiliato, spadroneggiato, ucciso, sottomesso persone e istituzioni: c’è qualcosa di profondamente malato in pezzi di società che ne hanno fatto delle star e a tanto tempo di distanza ancora conservano quel tipo di mito.
Perserei sia scontato che quando si vede lo Stato come il vero malato che malamente ha gestito e che il suo popolo ha vessato, impoverito e maltrattato – e mi par la diserzione alle urne l’abbia certificato – questo sia il risultato scaturito da parte di chi s’è sentito, dalle istituzioni, al suo destino abbandonato e invece aiutato da chi, quello Stato, così considerato, ha combattuto ed a certi bisognosi ha elargito e allo Stato, così si è sostituito. Cosi non va? Sarà ma questa mi pare sia la cruda realtà.
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