(Stefano Rossi) – “Mi sono liberato di tutto. È questa la bellezza”.

Così, Oliviero Toscani mentre raccontava la sua malattia ad un giornalista.

Poche parole che sintetizzano anni di studi di filosofia e psicologia.

Una frase che andrebbe non solo ricordata ma perseguita come un percorso salvifico quando ci si avvina alla fine.

Detta da uno che ha preso la vita a morsi.

Quando l’ho visto nella foto ed ho letto queste parole ho avuto un sussulto.

Scrivo queste poche righe per mia figlia come fossero un promemoria di ciò che fu l’Italia.

E un breve appunto per ricordare cosa è stato Oliviero Toscani.

Nel 1984Luciano Benetton, imprenditore che aveva idee originali, come del resto tanti altri, ed aveva aperto diversi negozi in tutto il mondo con le sue maglie coloratissime, lo chiama per dirigere la campagna pubblicitaria.

Non c’è il tempo di spiegare tutto.

Il design italiano era all’apice del successo mondiale.

Penne, matite, sedie, poltrone, lampade da tavolo, auto, pellicce venivano disegnate da artisti italiani e venivano vendute nel mondo.

Lo stile italiano si riconosceva da lontano.

Pininfarina disegnava auto che facevano impazzire tutti.

Oliviero Toscani, finiti gli studi, conobbe Andy Warhol e, forse, gli lasciò un segno indelebile.

Si era distinto con la campagna pubblicitaria per l’imprenditore torinese, Maurizio Vitale, proprietario dei marchi Robe di Kappa e di Jesus Jeans.

Per quest’ultimo fece una foto che in questo Paese segnò un’epoca.

La sua compagna, la modella Donna Jordan, aveva indossato stetti shorts e, da tergo, le fece una foto. Poi un’altra, dal davanti, con bottone e lampo aperti.

Portò le foto al pubblicitario Emanuele Pirella il quale aggiunse due slogan, ancora oggi ricordati e studiati dai pubblicitari: “Chi mi ama mi segua” e “Non avrai altro jeans all’infuori di me”.

Il linguaggio imprenditoriale del Nord dettava le sue regole che erano nuove, decise, e non seguivano i dettami della politica romana. E aprirono un’altra epoca.

Il rassicurante Carosello era sepolto. L’Italia stava cambiando rapidamente e, a distanza di tempo, si può dire, in meglio.

Allora, fu una rivoluzione. Prendere due frasi dal Vangelo, piazzare un sedere in primo piano, in un Paese che si interrogava sul comune senso del pudore, non era da tutti. E ci fecero pure un film.  

Ma l’imprenditore Vitale non si spaventò. Aveva visto John Lennon indossare una camicia militare di un soldato morto in Vietnam.

I giovani stavano cambiando, il mondo cambiava. La musica irrompeva con nuove canzoni, del tutto inedite e, con essa, nascevano generi musicali e mode nuove.

Non è come oggi. Allora, ascoltavi alla radio una musica che apriva un genere che il giorno prima non esisteva.

E solo dopo molto tempo lo venivi a scoprire.

Da notare che i jeans, per definizione, erano solo americani. Solo un pazzo italiano poteva pensare di investire in un prodotto che nessuno avrebbe indossato.

Ma ecco il colpo di genio: bisognava trovare un nome adatto. E lo trovarono: Jesus; il resto lo fece la pubblicità.

L’imprenditore Vitale fu denunciato per vilipendio alla Religione. Si difese dicendo che non si riferiva alle frasi di Gesù ma a quelle di Filippo il Bello quando doveva convincere i nobili a contrastare i feudatari ribelli. Il bello è che i giudici gli credettero. Fu assolto!

Pier Paolo Pasolini ci scrisse un memorabile articolo.

Non ne avremo più di Toscani e Pasolini. Non ci saranno più anni come quelli.

Ci hanno arricchiti, e non lo sapevamo.

Ed è giusto rileggere cosa scrisse Pasolini. Non ce l’aveva con Oliviero Toscani. Fotografava anche lui, a suo modo, i tempi che cambiavano ma solo lui avvertiva questo mutamento. Che diventò poi tragedia.

Vale la pena rileggere per comprendere come, oggi, non abbiamo più menti lucide che prevedono. Si deve leggere pensando cosa siamo diventati e cosa diventeremo con i telefonini, computer, robotica e intelligenza artificiale.

Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i «luoghi» dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene «applicata», sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro.

C’è un solo caso di espressività — ma di espressività aberrante — nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.

La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte.

Ma è possibile prevedere un mondo così negativo? È possibile prevedere un futuro come «fine di tutto»? Qualcuno — come me — tende a farlo, per disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa una esistenza. Questa visione apocalittica del futuro è giustificabile, ma probabilmente ingiusta.

Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei «jeans Jesus»: «Non avrai altri jeans all’infuori di me», si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità — subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte — faceva troppo ragionevolmente prevedere.

Si veda la reazione dell’«Osservatore romano» a questo slogan: con il suo italianuccio antiquato, spiritualistico e un po’ fatuo, l’articolista dell’«Osservatore» intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. …

L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. …

Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans «Jesus» è una spia di tutto questo. Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando, per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi – di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.

C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un «nuovo valore» nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile …

Infatti lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi — sia pur incosciente — che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. L’articolista dell’«Osservatore» questa volta sì è davvero indifeso e impotente: anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori”.

Pier Paolo Pasolini. “Il «folle» slogan dei jeans Jesus” sul Corriere della Sera, 17 maggio 1973.

Nello stesso anno, negli USA, durante il Super Bowl, veniva messo in onda il primo spot della Apple.

Toscani aveva le sue idee e le metteva in pratica.

Ci vorranno decenni per far entrare negli spot, nei film, nella società, persone di colore, affette da malattie o da handicap. Il politicamente corretto nessuno sapeva cosa fosse.

Oliviero Toscani, su sfondo bianco, senza nulla, fotografava bambini di varie etnie in modo del tutto naturale con lo slogan “All the colors of the world” mutato in “United Colors of Benetton” che diventerà parte del nome del brand.

Bambini con pelle e capelli diversi diventavano il veicolo del marchio Benetton e il messaggio era chiaro: uguaglianza razziale e libertà dei popoli. Ma poi arrivarono anche le critiche.

Fotografò un bambino ebreo insieme ad uno indiano d’America che sostenevano il mondo pieno di dollari. Gli ebrei si infuriarono di brutto.

Allora fotografò un ragazzo ebreo e uno palestinese che si abbracciavano e sostenevano il mondo. Aumentarono le critiche sempre da parte israeliane.

In seguito, arrivarono le foto della bambina appena nata, nei suoi primi attimi di vita, ancora attaccata al cordone ombelicale e sporca di sangue.

La foto pubblicitaria della neonata venne boicottata e censurata in molti stati USA, in Giappone e anche in Italia. A Milano, per esempio, non venne esposta in Piazza Duomo. Ma si può capire. Pensiamo ai giganteschi pannelli illuminati che dovevano fare vedere una neonata ancora piena di sangue, placenta e cordone.

La svizzera Société Générale d’Affichage, invece, premiava la foto.

Il museo Boymans van Beuningen, di Rotterdam, utilizzò la foto in una mostra sulla maternità.

All’apice del successo, Toscani cominciò ad utilizzare le foto di altri fotografi come nel caso dell’uccello intrappolato in un mare pieno di petrolio (foto di Steve McCurry) per sensibilizzare il tema dell’inquinamento.

O quella di Therese Frare, il quale, fotografò un malato terminale di AIDS assistito dai suoi cari.

Quello scatto era già stato pubblicato e vinse alcuni premi, ma solo dopo essere stato utilizzato da Toscani, tutto il mondo la conobbe.

Per la prima volta si affrontava il tema della morte e dell’AIDS. In Italia, per la precisione, ancora era vietato parlare dell’importanza dei profilattici.

Fioccarono critiche ma anche tanti premi come European Art Director Club per la miglior campagna nel 1991, l’Infinity Award dell’International Center of Photography di Houston. Molti musei richiesero il permesso di esporla e, nel 2003, inclusa nella “Life 100 Photos that changed the world”.

I parenti del malato dissero, dopo la sua morte: “Parla a voce molto più alta ora che

è morto che non quando era vivo”, facendo capire che era importante sensibilizzare tutto il mondo sui danni di quel terribile virus.

Spike Lee spiegò molto bene questo genere di pubblicità. Egli non sapeva chi fosse e cosa vendesse Benetton. Ma se era rimasto profondamente colpito, allora, voleva dire che si trattava di un’ottima forma pubblicitaria.

Le critiche mosse da Pasolini erano giuste ma, come lui stesso aveva profetizzato, era troppo tardi.

Nuovi linguaggi, nuovi lavori, nuove tecniche persuasive venivano usate per convincere i consumatori, ignari di quanto lavoro ci fosse dietro le loro scelte.

Tutto questo, oggi, lo vediamo anche nella politica dove addirittura, l’intelligenza artificiale, ha fatto ingresso con immagini, notizie, avvenimenti non sempre veritieri. In alcuni casi, vere, ma modificate quel tanto che serve al committente.

Oliviero Toscani ha tradotto, in netto anticipo, quello che poi sarà l’ultima evoluzione dell’uomo: l’homo videns, termine mirabilmente ideato dal grande Giovanni Sartori.

Questa nuova mutazione giunge ai nostri giorni.

La tecnica, di ogni forma e arte, non è più utile. Non serve per raggiungere uno scopo.

La tecnica, allora, serviva per far lavorare tanta gente anche se poi ci guadagnavano in pochi.

Oggi serve solo lo scopo finale.

Serve vendere desideri.

La tecnica è diventata impercettibile, segreta, per pochi.

Ma è necessario far credere che è a portata di tutti.

L’intelligenza artificiale è, forse, l’ultima invenzione per accontentare, si fa per dire, tutti.

E l’homo videns si sente libero semplicemente con un telefonino in mano poiché gli fa vedere ogni cosa a portata di mano.

Pasolini e Sartoni non hanno conosciuto il cellulare ma sapevano come sarebbe andato a finire.

E, per concludere, ci possiamo liberare di tutto solo aspettando una malattia incurabile?

Oliviero Toscani ci dice, a suo modo, che ciò che sembra il bello di questa epoca è, in realtà, un peso da liberarsi.