
(Domenico Quirico – lastampa.it) – Coloro che la raccontano, la filmano, la fotografano hanno con la morte una relazione profondamente clinica, perché sanno che il loro mestiere è un alibi per andare a cogliere i segreti più immondi della guerra. E che cosa è la guerra se non morte? Perché sappiamo che ogni piccolo biglietto di uscita guadagnato in un conflitto che hai attraversato indenne è il prezzo di una tragedia o di uno sguardo che ci perseguiterà nelle notti o che verrà un giorno a chiederci il conto. Non c’è da stupirsi se i veri reporter si lasciano dietro come cianfrusaglie inutili le vecchie tiritere incrodate nella saggezza di coloro che in guerra non sono mai andati: bisogna che qualcuno si sacrifichi e descriva quello che accade, altrimenti chi saprà cosa è accaduto… il coraggio di testimoniare… abracadabra…
Dopo l’Ucraina, il conflitto delle bugie di perfezione ormai tecnologica è prova generale delle falsità che germineranno nell’era della intelligenza artificiale; e dopo Gaza dove a poter vedere sono stati solo i giornalisti palestinesi che hanno pagato quello sguardo con la vita e a cui non è stata lasciata scelta, neppure quella di aver paura e tirarsi indietro, che cosa resta del giornalismo di guerra? Nel secolo che anche negli eserciti regolari universalizza come strategia una allucinante contabilità della eliminazione fisica e considera «buoni» solo i nemici morti, si può partire con lo zaino e il taccuino, per l’ennesima volta, come l’impiegato raggiunge l’ufficio, per fare un lavoro che sembra ordinario tanto ci è diventato familiare? Come muoversi in un tempo in cui anche andare in luoghi dove apparentemente un fronte non c’è e in più hai il permesso, il visto, il maledetto «pass», insomma hai rispettato le regole perfino con il tiranno di turno, diventa una scorciatoia verso il carcere e il buio? Siamo diventati inutili, superflui visto che nessuno bada a ciò che raccontiamo? Per chi scriviamo e rischiamo?
È davvero il momento di sbarazzarsi della ridicola mitologia dell’inviato di guerra che salta da un conflitto all’altro con il tranquillo coraggio dell’eroe disarmato. Forse bisogna raccontare le storie di piccoli uomini che si fanno manipolare spesso, che spesso non comprendono cosa sta accadendo loro attorno, che hanno sempre paura, paura di morire e paura di aver fatto male il loro mestiere ovvero scrivere cento righe di prosa onesta sugli esseri umani o scattare una immagine nella cui didascalia si possa scrivere: questa è una foto per sempre. Coraggio, ammettiamolo: il nostro lavoro non cambierà mai il mondo. Ma proprio questa consapevolezza è ciò che ci consente di svolgerlo con conradiana volontà di farlo bene, di arrivare ogni volta fino in fondo.
Nelle retrovie si sente molto pronunciare la parola coraggio, coraggio… ebbene chi tenta di raccontare i conflitti e riflette sul senso di questa parola lo fa essendo consapevole che non avrebbe potuto fare niente altro che quello che ha fatto, le situazioni estreme che ha attraversato non hanno lasciato altra scelta, avanzare o fuggire, e che bisogna aver fatto molte volte l’esperienza della fuga per imparare che la viltà e appunto il coraggio sono così intimamente legati che è difficile individuare il momento esatto in cui sei crollato.
Allora che resta, alla fine? Per chi si deve continuare a scrivere? Per coloro di cui dalla Ucraina a Gaza, dalla Siria al Mali sei venuto a condividere il terrore e la rabbia, la morte e la fragile sopravvivenza, che hanno accettato di lasciarti guardare.
“Per chi si deve continuare a scrivere?”
Per nessuno caro Quirico, smetti il prima possibile,fallo per te stesso,fatelo per voi stessi.
“Allora che resta, alla fine?”
Il sudoku o le parole crociate nel caldo tepore domestico, mio papà fa così.
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Troppo spesso oramai siete solo giornalai, tuttalpiù tristi giornalisti racconta guai e a senso unico, penserei, Quirico.
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“Coraggio, ammettiamolo: il nostro lavoro non cambierà mai il mondo.” Ne sono sicuro, anzi; il vostro lavoro peggiorerà il mondo, rendendolo sempre più schiavo dei pochi che governano, eletti o meno siano.
Eletti o meno in quanto – da sempre – non è il politico a governare bensì “l’economia”, ossia il denaro e chi, dietro montagne “verdi” (classico colore della carta moneta…), si muove come Mangiafuoco con le sue marionette. Il vostro dovere dovrebbe essere quello di denunciarlo sempre, senza se e senza ma, però capisco: anche i giornalisti tengono famiglia. E molti di voi, i più seguiti e influenti, nondimeno corposi conti in banca, foraggiati dalle stesse persone che decidono quando, come e perché una guerra (o una manovra politica) si debba fare. Morale? Buon 2025 a tutti, ricchi, poveri, belli e brutti. 🍾🍾
“El Pueblo Unido Jamás Será Vencido” resterà sempre una canzone.
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ricambio gli auguri e rilancio con un altra canzone
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Piu’ che giornalisti direi al 90 per cento(e me tengo largo) incartatotani che seguono la linea dell’ editore padrone🤔
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E menomale ! Io mi domando cosa farebbe Quirico e i suoi colleghi allineati se avessero un mitra al posto dell’ inchiostro a disposizione .
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Dovreste limitare i vostri scritti alle sole didascalie sotto le fotografie, senza aggiungere altro, senza canalizzare il pensiero del vostro editore e padrone.
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