Per far presto e evitare dissensi scatta la tagliola: maxiemendamento e voto di fiducia. Il Parlamento non parla, a dispetto del suo nome. E non decide, giacché lo fa solo il governo. Anzi il suo capo

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Il 2025 sarà l’anno delle riforme costituzionali, ha annunciato Giorgia Meloni dal palco di Atreju. Ma no, non è vero. Le riforme cadono ogni anno, più di una volta l’anno. Solo che non vengono mai scritte, né promulgate, né stampate sulla Gazzetta ufficiale. Sono riforme informi, mettiamola così. Però — un ritocco alla volta — hanno cambiato l’aspetto della nostra Carta. E la legge di bilancio, discussa (si fa per dire) dal Parlamento in questi giorni, ne offre la riprova.

Quale sarebbe, infatti, la procedura consacrata? Esame e voto di una Camera, poi esame e voto dell’altra. Infine nuova lettura della prima Camera, se la seconda ne corregge il testo. Ping pong, così vuole il bicameralismo perfetto. Che tuttavia alle nostre latitudini funziona in modo imperfetto: un ramo del Parlamento lavora, l’altro ratifica. Senza discutere, perché non c’è più tempo.

Vale per le leggi di bilancio (dopo il 31 dicembre scatta l’esercizio provvisorio), così come per i decreti legge (vanno convertiti entro 60 giorni, altrimenti decadono). E per far presto, per evitare critiche e dissensi, scatta quasi sempre la tagliola: maxiemendamento e voto di fiducia. Sicché il Parlamento non parla, a dispetto del suo nome. E non decide, giacché decide ormai solo il governo, anzi il suo capo. Eravamo una Repubblica parlamentare, siamo precipitati in una capocrazia.

Facciamo parlare i numeri. Decreti legge: 3,5 al mese, quasi uno a settimana. Varati in nome dell’urgenza, ma poi lasciati marcire, perché mancano le norme d’attuazione: quelli timbrati nei primi 15 mesi del governo Meloni richiedevano 316 decreti attuativi. Ciò nonostante, ogni decreto s’affolla di norme e d’aggettivi, che lievitano ulteriormente durante la sua conversione parlamentare: l’aumento medio è di 34 commi e di 4.340 parole.

Quanto al voto finale, per lo più avviene sotto dettatura: l’esecutivo ha posto la questione di fiducia nel 55,8 per cento dei casi durante la legislatura scorsa, ma adesso anche di più. E la fiducia viene applicata non solo sui decreti, bensì su tutti i provvedimenti più importanti. Compresa la legge di bilancio, e infatti il governo l’ha annunciata pure questa volta. Dovrebbe trattarsi d’uno strumento eccezionale, al pari dei decreti, però è ormai la regola: l’esecutivo Meloni viaggia alla media di un voto di fiducia ogni 11 giorni.

Questi fenomeni perversi non sono un regalo dell’ultimo Natale. Durano da tempo, ma con lo scorrere del tempo incrudeliscono, vanno diffondendosi in lungo e in largo, mentre l’abuso si trasforma in uso. È il caso del “monocameralismo alternato”, come viene definito. Sui decreti legge, ne è testimonianza il fatto che il procedimento di conversione si prolunghi in media per 42 giorni, ma una sola settimana presso la Camera che li esamina per ultima.

Sulla legge di bilancio, succede (sta succedendo) anche di peggio. Perché la discussione degli emendamenti si è consumata, con sedute diurne o a lume di candela, nella commissione Bilancio della Camera, mentre all’aula resterà la scelta fra prendere o lasciare. E quando toccherà al Senato, potrà soltanto prendere. Morale della favola: dovrebbero decidere 600 parlamentari, con il monocameralismo di fatto la decisione spetta alla metà, ma se a decidere è poi la commissione contano i voti di 30 parlamentari appena.

Questioni formali, procedurali, burocratiche? No, è in questione la democrazia. Giacché la forma è garanzia di libertà, diceva Piero Calamandrei. E giacché la democrazia stessa, in ultimo, è una modalità procedurale, è una forma che conforma il nostro vivere civile. Se viene oltraggiata la legalità formale, soffre anche quella sostanziale. Se la libertà dei parlamentari viene soffocata da un bavaglio, ciascuno di noi rimane imbavagliato. E se ogni votazione si trasforma in un applauso — con i listini bloccati alle elezioni, con la fiducia in Parlamento — tanto vale abolire il voto, risparmieremmo tempo e denaro.