(Giuseppe Di Maio) – Più che padre fondatore del M5S, Grillo sembra la madre. Mi ricorda certe espressioni di genitrice quando il figlio era insopportabilmente insolente: “Io ti ho fatto, e io ti disfo”. L’aria padronale con cui il fondatore si è mosso finora (di cui trasuda tutto lo Statuto costruito attorno alla sua figura) è diventata tossica per i pentastellati. Ormai Grillini non ce ne sono più, solo un po’ di gente riconoscente per aver avuto la possibilità di essere stata protagonista in un periodo della vita indimenticabile e, perché no, per aver guadagnato qualche soldo con uno stipendio che molti di loro sognavano.

Ma se Grillo era un rivoluzionario della mutua, Conte è un costituente abborracciato. Le innumerevoli versioni statutarie, dalla prima famosa del “non Statuto”, ci dicono che la lotta politica interna è la sostanza del Movimento e che i normatori 5S sono spaventati dalla democrazia. All’elezione è opposta la designazione, alla maggioranza si contrappone la capricciosa garanzia, la decisione assembleare si ripete finché non arriva il risultato favorevole al padrone. Qui bisogna ricordare che l’Assemblea è stata sempre convocata per confermare decisioni di vertice, con l’opportuna pasturazione di un popolo fiducioso nei suoi portavoce. Ma è la prima volta che essa viene convocata per cancellare le proprie decisioni. E, con questo, per aver cioè confidato nell’astensione al voto, Beppe ha raggiunto il punto più basso del suo interesse per il bene comune. L’avventura di Grillo ebbe il merito di intercettare una mancanza estesa e profonda nella nostra società, l’assenza di rappresentanza di un popolo dilaniato tra bande rivali ma simili, un anelito che ha trovato nella sua ondivaga creatura una temporanea soddisfazione, per l’insufficienza di un adeguato portato ideologico, per la scarsità di indicazioni sul futuro ordine sociale. Questa ripetizione del voto assembleare testimonia che nel M5S la lotta politica sopravanza l’interesse ideale, proprio la ragione che mi ha fatto allontanare dai gruppi territoriali.

Ed è anche per questa ragione che la fase finale del congresso è stata più somigliante ad un convegno, per l’esigenza cioè di dover tracciare delle linee teoriche nel Movimento anarchico delle “anime” invece che degli orizzonti comuni. Ciò che viene fuori adesso è un partito con elettori e dirigenze meridionali, con indirizzo strategico unitaristico e avverso alla frammentazione autonomistica, un partito dagli orientamenti più sicuri anche se ha scelto solo una malferma indipendenza dalle forze di sinistra invece che una totale contrapposizione più adeguata al suo ruolo di competitor elettorale. Ciò che viene fuori è un organismo indipendente dal debito della sua creazione, dalle imago materne di un guitto irrazionale che fatica a diventare un’annotazione nella storia del partito.