Solo due anni fa la premier rappresentava lo spauracchio dell’Unione, ora c’è il primo netto sì ai vertici europei di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia

L’Ue di von der Leyen cambia maggioranza. La campagna d’Europa di Meloni senza Salvini

(Flavia Perina – lastampa.it) – E dunque mercoledì prossimo 27 novembre vedremo la plenaria del Parlamento europeo dare luce verde – niente voto segreto, tutti dovranno metterci la faccia – alla nuova Commissione di Ursula von der Leyen e sarà una prima volta per molti motivi. Il primo netto sì ai vertici europei di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia. Il primo governissimo europeo insediato da un’intesa che va dai socialisti a una parte rilevante dei conservatori (i polacchi e altri voteranno contro).

La prima maggioranza Ursula a tenere testa a un inedito fronte delle opposizioni: i Verdi, l’estrema sinistra di Left, l’estrema destra dei Patrioti di Viktor Orban, degli ultra-nazionalisti dell’Esn e di un pezzo dello stesso Ecr, il gruppo di Giorgia Meloni, che si è rifiutato di aderire all’accordo. Ci sono ovviamente dei distinguo progressisti, con le clausole che vincolano il neo-Commissario italiano Raffaele Fitto ad agire in modo «indipendente dal suo governo nazionale», e tuttavia è evidente che si tratta di un po’ di zucchero su un patto faticoso da digerire perché contraddice antichi riflessi identitari e spezza i cordoni sanitari del passato.

Per Giorgia Meloni è un indubitabile successo, che ha molto a che vedere con il suo status e assai meno con la conferma del ruolo di Fitto alla Coesione e a una delle vicepresidenze esecutive. Se era scontato un incarico di qualche rilievo per l’Italia, Paese fondatore, assai meno certo era il via libera a un sostanziale ingresso in maggioranza di una premier che, solo due anni fa, rappresentava lo spauracchio dell’europeismo, la signora che aveva giocato a lungo con l’Italexit e con il progetto di ripristinare la primogenitura delle leggi nazionali sulle norme europee. Per molto tempo Meloni è stata rappresentata come una leader al bivio, un po’ con Viktor Orban e un po’ con Von der Leyen, un po’ all’inseguimento di Matteo Salvini e del suo euroscetticismo naturale e un po’ in cerca di legittimazione ai tavoli decisionali dell’Unione. Ora il passo fatale è stato compiuto. Il sì al secondo governo Ursula marcherà un prima e un dopo. Non solo a Bruxelles ma anche in Italia, e basta vedere la quasi totale assenza di congratulazioni leghiste al neo-Commissario Fitto (unica eccezione Gian Marco Centinaio) per capire la giornata nera del mondo salviniano.

L’accordo in extremis sui nuovi vertici dell’Unione e il voto che lo suggellerà (salvo sorprese) riordina una confusione che si era fatta intollerabile, soprattutto se paragonata al terrificante decisionismo delle superpotenze. Gli annunci atomici di Vladimir Putin, lo squadernamento delle nomine trumpiane con la conferma di una nuova guerra dei dazi alle porte, le inquietanti notizie dal Nord sugli opuscoli di sopravvivenza distribuiti alle popolazioni con le avvertenze in caso di conflitto («Ogni notizia di resa è falsa, combatteremo fino alla fine»). Nel fracasso del mondo l’Europa è apparsa per mesi appesa a certe indecifrabili contestazioni alla Commissaria spagnola, che forse ha avuto un ruolo nei mancati allerta alluvione o forse no, alle incertezze dei Verdi su un’intesa che sembrava fatta e poi è stata ricusata, ai bizantinismi di chi sperava di usare Fitto per dare una spallata a von der Leyen.

Ora che il dado è tratto e il governissimo europeo è servito, anche grazie al senso di responsabilità dei Dem italiani e di Elly Schlein, si cambia scena. Le quattro grandi famiglie europee, Popolari, Progressisti, Liberali e pure lo spezzone italiano dei Conservatori, si prendono sulle spalle il peso della storia che verrà. Vedremo. L’intesa approfondisce la faglia che in Italia divide la maggioranza, ma segna anche un più largo spartiacque tra i partiti disponibili a farsi carico di una fase oggettivamente emergenziale e quelli che la interpretano come occasione per allargare bacini elettorali fondati sulla protesta e su un alto tasso di populismo. Se Meloni ha potuto fare la sua scelta in favore dei primi è anche perché giudica il suo consenso solido, per niente minacciato dalla competizione sovranista che ha visto il flop della Lega in tutti i territori dove si è votato.

La gara interna è vinta, la primogenitura della destra è confermata, e adesso si apre un altro tipo di sfida, tutta esterna. È la sfida dell’affidabilità e dei risultati nel confronto con un’area progressista che si sta riorganizzando e sembra aver trovato nel Pd di Elly Schlein il baricentro di una futura controproposta agli italiani. Per giocarla non servono fanfare estremiste ma successi nei grandi match europei: il Piano di Ripresa, la gestione delle nuove regole di bilancio, i futuri scenari del conflitto ucraino, le sorti del Piano Mattei, persino il placet giuridico da cui dipende l’operazione Albania. Il sostegno al governissimo d’Europa servirà a giocare al meglio ciascuna di queste partite, finalmente fuori dal ghetto dei sospetti impresentabili.