Immigrazione, povertà e psicofarmaci – Paralleli. Un ragazzo maliano che abbiamo aiutato aveva avuto un simile scatto d’ira, ora è una persona serena

(Di Selvaggia Lucarelli – ilfattoquotidiano.it) – Qualche anno fa, conobbi per caso un ragazzo di 24 anni che era arrivato in Italia su un barcone. Era partito nel 2013 dal Mali dopo che il suo papà adottivo – un militare – era morto in uno scontro a fuoco durante la guerra civile tra separatisti Tuareg e l’esercito maliano. Per lui (che all’epoca aveva 19 anni), i suoi due fratelli più piccoli e sua madre l’unica speranza di sopravvivenza era la fuga. Da quel momento, la storia di questo ragazzo diventa la storia di molti migranti sulla rotta subsahariana: la madre e i fratellini che salgono su una camionetta mentre lui si dirige a piedi verso il deserto, con altri uomini. Diciannove giorni tra sabbia e dune, poi Tripoli, tre anni da schiavo sfruttato e torturato, infine un gommone che salpa in piena notte, carico di 115 vite umane. Come tanti di questi migranti, non ha mai visto il mare. Tredici persone, compresi una mamma e un neonato, muoiono ustionate dal carburante. Lui, il ragazzo maliano che non saprà mai più nulla di sua madre e dei suoi fratellini, arriva in Italia, dove impara velocemente la lingua, prende la terza media e inizia a fare il cuoco.

Ottiene lo status di rifugiato politico, ma – come mi racconterà lui stesso – nei tre giorni che hanno preceduto il verdetto smette di mangiare per la paura. Pensa che se lo rimandano a casa, si butterà sotto la metropolitana. La storia di questo ragazzo, ai tempi, mi colpì al punto che gli diedi una mano a trovare un lavoro migliore di quello precario che aveva in una toasteria.

Una coppia di miei amici che gestivano un importante ristorante a Milano lo assunse in cucina. Lui era felice, imparava in fretta, tutti erano entusiasti del ragazzo maliano che sorrideva sempre. Poi, un giorno, l’amica del ristorante mi chiamò. “Sai, il ragazzo maliano… l’ho dovuto mandare via”. Rimasi esterrefatta. “Perché, cosa è successo?”. Mi raccontò con enorme tristezza che una sera lui ebbe una lite con un cuoco cingalese in cucina e nel trambusto minacciò l’altro con un coltello. Non accadde nulla, ma tutti si spaventarono e l’immagine del ragazzo volenteroso e mite, evaporò in un attimo.

La mia amica però disse che credeva in quel ragazzo e che lui le aveva spiegato i suoi trascorsi. Quelli in Libia, credo. I padroni che lo bastonavano quando accudiva gli animali per loro o faceva il muratore, le torture nel carcere libico dove era finito quando era scappato da un padrone che lo picchiava più degli altri, la violenza cui aveva assistito per anni. La feroce lotta per la sopravvivenza quando era un ragazzino, insomma, che gli aveva lasciato dei segni nella psiche e che si aggiungeva alla perdita della sua famiglia. Il ragazzo fu aiutato ad affrontare il percorso psicologico e quando tutti, compreso lui, si sentirono pronti, tornò in quella cucina. Oggi lavora in un ristorante di lusso e si è sposato.

Tutto questo per dire che quando si parla di migranti che sembrano compiere atti di violenza gratuita, spesso le cose sono più complicate di “è un delinquente”.

I profughi che a causa dei loro trascorsi sono affetti da forme di psicosi, di depressione, di ansia sono moltissimi. Salvini, questo lo ignora. O fa finta di ignorarlo. Di sicuro non si è chiesto chi fosse Moussa Diarra, il 26enne maliano ucciso due giorni fa da un colpo di pistola mentre aggrediva tre poliziotti con un coltello, alla stazione di Verona. Il ragazzo aveva preso a calci macchine e vetrine, era in evidente stato di alterazione, probabilmente non si poteva fermare in altro modo. Ma non è questo il punto.

Moussa aveva lo status di rifugiato politico, ma non il permesso di soggiorno, era spesso ospite della Ronda della carità, lavorava nei campi, i pochi soldi che guadagnava, a quanto pare, faticavano pure ad arrivare e soffriva di depressione. Gli era stata tolta la protezione sociale, prendeva psicofarmaci. Non penso che la sua vita prima di arrivare in Italia sia stata molto diversa da quella del mio amico maliano. Immagino che anche Moussa sia scappato dalla guerra, abbia attraversato il deserto, abbia perso la famiglia, abbia pensato “se mi rimandano a casa mi butto sotto la metropolitana”. Invece, probabilmente in preda a una crisi psicotica, è morto per un colpo di proiettile. Matteo Salvini ha commentato: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere”. Non ha perso l’occasione, il ministro dei Trasporti, di banchettare sul cadavere di un uomo sfortunato, di scrivere il suo post superficiale da odiatore professionista ancora convinto – poveretto – che la propaganda contro gli immigrati lo resusciterà dalla sua morte politica. Sogno il giorno in cui espulso per sempre dai palazzi del governo, ripudiato dagli elettori, schifato da tutti, Matteo Salvini vagherà in stato confusionale per la stazione di Milano. Mi auguro che quel giorno qualche anima pia lo raccolga dalla strada e lo porti da un bravo psicologo. Magari potrà risolvere una volta per tutte il suo problema di mancanza di empatia.

E comunque – per citare lo stesso ministro – una cosa è certa: non ci mancherà.