Nel Paese senza figli i gatti non c’entrano

(Chiara Saraceno – lastampa.it) – Egoismo, individualismo sfrenato, sostituzione dell’amore per cani e gatti a quello per i bambini. Sono le spiegazioni troppo spesso avanzate anche dalle più alte sedi e ripetutamente dal Papa per il declino demografico (ieri anche da Bucci, candidato della destra alla presidenza in Liguria). Sono per lo più le donne ad essere oggetto di queste accuse, anche se spesso vengono generalizzate verso i giovani di entrambi i sessi. Oltre a mancare di rispetto alle libere scelte delle persone, e all’esperienza di chi, pur desiderandoli, non ha potuto avere figli, queste spiegazioni, e relativi tentativi di colpevolizzazione, mancano pressoché totalmente i termini della questione.

È vero che le persone senza figli sono in aumento, in Italia come nella maggior parte dei Paesi sviluppati. E che la proporzione delle donne senza figli in Italia è tra le più alte al mondo – anche se quella degli uomini senza figli (noti) è ancora più alta, in Italia come nel resto del mondo. Tuttavia, come già qualche anno fa avevano mostrato due demografe, Maria Letizia Tanturri e Letizia Mencarini, non sempre non avere figli è una scelta; al contrario è l’esito di vincoli di tipo biologico o più spesso sociali.

È un argomento che ha ripreso un altro demografo, Giampiero Dalla Zuanna, in un articolo uscito in questi giorni su neodemos.info dal titolo spiritoso: Donne senza figli: i gatti non c’entranoIl riferimento è all’insulto (gattara) rivolto dal candidato alla vicepresidenza USAVance; ma potrebbe riferirsi altrettanto appropriatamente alle ultime esternazioni del papa di ritorno dal Belgio.

Pur senza sottovalutare il cambiamento culturale per cui oggi un numero crescente di persone non ritiene più la genitorialità il fine principale della propria vita e, nel caso delle donne, la maternità come unica forma di realizzazione di sé, ma, nel caso, desidera combinarla con altre attività e aspirazioni, Dalla Zuanna mostra dati alla mano che le condizioni economiche – individuali e di contesto – hanno il ruolo prevalente nel determinare l’assenza di figli.

Le donne senza figli sono, infatti, più numerose nelle aree più povere del Paese, raggiungendo il 40% fra le attuali quarantenni in Sardegna, Calabria, Basilicata e Molise, contro il 25% nel Triveneto. È la conseguenza di una combinazione di fattori di scarsità che rallentano, quando non impediscono del tutto, la formazione di una famiglia propria per giovani donne e uomini in condizioni economiche modeste.

I giovani più poveri, infatti, escono più tardi dalla casa dei genitori, ritardando quindi la formazione di una coppia convivente e la decisione se o meno avere figli. Hanno accesso a occupazioni spesso precarie e a bassa remunerazione, che non consentono loro di fare progetti di vita, e assumere responsabilità, a lunga scadenza come è la decisione di mettere al mondo un bambino/a.

Come segnala Dalla Zuanna, fra gli attuali giovani di 25-34 anni, la proporzione che si trova in coppia convivente (coniugata o meno) è molto minore rispetto a dieci anni fa, quando pure era una delle più alte nel mondo sviluppato. Non si tratta di rimanere comodamente nella cuccia domestica accuditi e mantenuti dai genitori, come vuole troppa retorica negativa sui giovani, ma della difficoltà, se non impossibilità, che troppi giovani oggi hanno a pagarsi un affitto, dato che, anche se occupati, spesso non guadagnano un reddito sufficiente e sufficientemente sicuro.

Se poi vivono in aree a loro volta povere, oltre a mercati del lavoro locali poco dinamici, devono anche fronteggiare la mancanza di servizi, una mancanza particolarmente cruciale per le donne che desiderano combinare la maternità con una occupazione. Se e quando raggiungeranno il minimo di sicurezza necessario a programmare responsabilmente un figlio, può essere troppo tardi per il loro orologio biologico che, nonostante l’innalzamento delle speranze di vita, continua inesorabilmente a rallentare dopo i trent’anni.

È vero che in compenso si sono molto sviluppate le tecniche di riproduzione assistita, ma oltre ad essere molto onerose finanziariamente e medicalmente (per le donne), hanno tassi di successo ridotti rispetto alle grandi speranze che in esse ripongono coloro che, dopo essere stati costretti a rimandare la decisione di avere un figlio/a, vorrebbero dare finalmente corso a quel desiderio compresso.

Di fronte a questi dati, alla durezza delle esperienze e delle vite che suggeriscono, sarebbe opportuna almeno una maggiore sorveglianza nel linguaggio di chi si erge a giudice morale di ciò di cui sembra avere scarsa conoscenza e tantomeno rispetto.