
(Umberto Vincenti – lafionda.org) – Qualche giorno fa il Presidente Mattarella ha incontrato al Quirinale le agenzie di stampa per sostenere l’ovvio: che la libera informazione è consustanziale all’essere della democrazia. Un appello accorato, avvalorato anche dalla postura del Presidente che ha parlato dal leggio perché – ha spiegato – «le istituzioni devono avere rispetto per la stampa e parlare in piedi». Poi il discorso è proseguito sulla linea dell’ovvio e, dunque, ci stava anche l’evocazione della nuova dimensione dell’informazione consegnata, in larga parte, a piattaforme digitali e all’intelligenza artificiale. E in linea anche la conclusione nel nome dei diritti fondamentali: la tecnologia deve implementare le possibilità dell’informazione libera e consapevole, non renderla fittizia o manipolatoria. In gioco vi sono «diritti irrinunciabili». Un tono alto, da Costituente.
E allora come non dare ragione a Sergio Mattarella? Le cose stanno certamente così. Ma non solo così. Non solo tutelando editori e giornalisti dai poteri in campo, quelli pubblici e visibili e quelli invisibili, pubblici e privati, avremmo ciò che tutti desideriamo: un’informazione libera e di qualità. Non bastano i proclami, non bastano le leggi per rendere immune l’informazione dal pericolo di essere ‘tossica’: l’indipendenza non si realizza solo in grazia del contenimento dell’azione invasiva di istituzioni e big players.
L’indipendenza dipende innanzi tutto dalla disposizione verso di essa da parte di chi informa: scrivendo, parlando, muovendosi nello spazio pubblico, da indipendenti e anche da informati, cioè da competenti. Di ciò, mi pare, il pur apprezzabile discorso del Presidente nulla dice. Come mai? Forse perché realizzare una tale disposizione è ritenuta una missione impossibile. Forse perché si esigerebbero condotte incoercibili. Forse perché si finirebbe con l’andare in urto con un ceto – giornalisti, editori, agenzie di stampa– potente e pure pericoloso per chi è in politica.
Ma se chi deve informare non sia acculturato a sufficienza e sufficientemente forte rispetto alle lusinghe provenienti dall’esterno, dal desiderio di scoop e simili, dalle ambizioni di carriera e notorietà, insomma se gli informatori non siano capaci di resistere innanzi tutto alle pulsioni personali, l’indipendenza sarà sempre a rischio, nonostante le leggi, i diritti consacrati in testi costituzionali, le alte allocuzioni dei vertici istituzionali.
Chi informa – o lavora nell’informazione – deve essere molto preparato e addestrato, convinto, motivato a resistere a sé stesso innanzi a tutti. E da questo non irrilevante punto di vista si fa poco o nulla. Addirittura se ne omette di parlare. Eppure pensiamo alle notizie che ci vengono propinate in questo periodo, a quelle ritenute – dagli informatori – più rilevanti, a come ci vengono presentate: difficilmente o mai si scava dentro di esse, si ricerca la causalità dei fatti nei tempi lunghi della storia; invece si omette di dire quel che pur si sa, ma che è scomodo, che finisce col cozzare con visioni, paradigmi, valutazioni consolidate, anche se parziali o parzialissime.
Chi va a fondo della questione israelo-palestinese? O di quello russo-ucraina? O, rimanendo tra noi, dei femminicidi? Perché si parla solo di diritti e non ci si domanda mai se, per avventura, la nostra Costituzione abbia considerato poco i doveri e quali possono essere le conseguenze di questa parzialità?
Si offre sì qualche spiegazione, si indica qualche catena causale. Ma si tacciono altre possibili spiegazioni, si omettono altre catene causali. Insomma questioni del genere sono ben più complesse di quel che appare; e mettere in campo questa complessità significherebbe introdurre eventuali profili di colpa che non si vuole proprio introdurre. L’impressione è che ci si arresti perché c’è calcolo, opportunismo, talora timore o, peggio, paura. O più semplicemente perché andare controcorrente è qualità di pochi e, oggi, questi pochi sono oscurati.
Ci raccontano che le università italiane sono eccellenti, in progressione continua. Ma le cose stanno veramente così? Considerare, per esempio, il livello di preparazione medio dei nostri laureati e introdurre una conseguente valutazione sarebbe fuori luogo? È corretto insistere sui problemi psicologici delle ultime generazioni senza mai relazionarne l’insorgenza con il lievitare del numero degli psicologi e il con gran fascino di questa disciplina che promette molto? È adeguato accogliere le matricole universitarie dicendo di non preoccuparsi e garantendo loro che, durante gli anni di università, si divertiranno molto? È cosa buona che l’università li premi, qualora prendano un bel voto, offrendo loro uno spritz, cioè un alcoolico?
Insomma, ci siamo capiti. Non c’è libera informazione se certi temi, non irrilevanti ma caratterizzanti la nostra società, non possono essere presentati e affrontati o non possono esserlo nella loro totalità: espungerli o mutilarli è o non è in contrasto con la libera informazione?
Mi auguro che anche di ciò vorrà parlare la prossima volta il Presidente Mattarella affrontando la questione cruciale della libertà d’informazione in Italia. Ma forse aveva ragione Hannah Arendt constatando – in Verità e politica – che considerare le cose, la politica in particolare, dal punto di vista della verità o, meglio dell’assenza di menzogne o riserve mentali, implica quale conseguenza il collocarsi al di fuori della dimensione politica. Forse è così. Ma la prudenza, che ne deriverebbe ad evitare la marginalizzazione, meglio l’allineamento alla tavola valoriale o pseudo-valoriale che verrebbe in tal modo ad imporsi, anche tacitamente, agli informatori, può giudicarsi compatibile con un sistema autenticamente democratico?
“Un appello accorato, avvalorato anche dalla postura del Presidente che ha parlato dal leggio perché – ha spiegato – «le istituzioni devono avere rispetto per la stampa e parlare in piedi» “. Insomma, quando la forma prevale sulla sostanza. Il PdR dovrebbe – con viva e vibrante determinazione – far valere il suo ruolo, mai essere zerbino di qualsivoglia governo. Il capo di Stato “può rifiutarsi di promulgare una legge se trova dei vizi che lo allontanano dallo spirito della Costituzione.“
Il PdR ovviamente non legifera, la funzione legislativa compete al Parlamento. Però può rispedire una legge al mittente se ritiene che ci sia discordanza tra il contenuto del provvedimento e la Costituzione.
Costituzione, articolo 74: «Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione»
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è uno strumento che il presidente utilizza poco. Prima cerca di mandare messaggi in fase votazione di una legge chiedendo informalmente delle modifiche. Se non ci sono modifiche (il che è ancora più raro) tende a promulgare perchè comunque in seconda battuta sarebbe obbligato.
Arrivare a promulgare una legge perchè obbligato accenderebbe uno scontro tra istituzioni che tutti vogliono sempre evitare.
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Sicuro “tutti”(1)? E, comunque fosse, la Costituzione parla chiaro, il PdR ha facoltà di rimandare una legge – ovviamente deve farlo per motivazioni serie, NON personali o d’indirizzo politico diverso dal governo… – al mittente ed è stato fatto più volte di quanto si possa credere, in primis da Cossiga. Il punto è: fai una legge di emme? Il presidente della Repubblica non la firma, altrimenti dovrebbe evitare affermazioni ipocrite come “le istituzioni devono avere rispetto per la stampa”. Sì, certo, come no. E se il governo dovesse fregarsene, rimandando la legge alla firma, il Pdr, individuando nella stessa un conflitto rispetto i dettami della Costituzione, potrebbe rifiutarsi ancora e rimettendosi alla decisione della Corte Costituzionale.
(1) Francesco Cossiga lo fece ben 22 volte, Carlo Azeglio Ciampi 8 volte, Sandro Pertini 7 volte Oscar Luigi Scalfaro 6 volte.
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Nella sua analisi, il sig. Umberto Vincenti si è dimenticato di citare il principale vulnus che rende de facto impossibile la piena libertà d’informazione, ovvero il fatto che l’informazione deve anche e soprattutto vendere copie (o visualizzazioni).
Il vero valore aggiunto dell’informazione non risiede nella sua presunta libertà, che nei fatti è irrealizzabile, ma nel pluralismo: un Paese è tanto più libero quante più sono le voci in grado di esprimere e rappresentare opinioni diverse.
Alla luce di ciò, l’imparzialità (altra cosa irrealizzabile nei fatti) dell’informazione diventa perfino secondaria: quando c’è la possibilità di ascoltare tante versioni, seppur parziali (ma con cognizione di causa, ovvero avendo ben chiaro chi sono i referenti di ognuna di esse), allora l’imparzialità non serve.
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caxxate!
I fatti sono fatti
e le opinioni non sono fatti,
tu invece, caro il mio prolisso prolasso, le confondi.
Se invece pieghi i fatti verso le opinioni allora non hai una informazione libera ed imparziale, ma bugiarda.
Tutto il resto è manipolazione per confondere i cittadini i quali a volte votano o prendono decisioni influenzate da errate informazioni, o per fare pressioni sui governi o per assencodarli.
Perchè altrimenti gli Elkann-Agnelli si sarebbero comprati Gedi e ora se ne vogliono disfare dopo aver raggiunto i loro scopi?
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Gianfranco Funari ha sempre detto (a proposito delle classifiche dei paesi liberi di stampare):
Non esiste la stampa LIBERA.
Esistono i giornalisti LIBERI.
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Quanto è libera l’informazione in Italia lo vediamo tutti.
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