L’Occidente non sa più come fermare le guerre. E Meloni va verso l’addio all’Ucraina

Volodymyr Zelensky con Donald Trump

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – In attesa del solito inverno del nostro scontento, celebriamo l’autunno del disinganno. L’Occidente, stanco di guerre, non ha la più pallida idea di come fermarle: lascia che siano. Al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, Tempio dell’Inconcludenza multilaterale, Netanyahu annuncia che Israele combatterà “fino alla vittoria totale” (qualunque cosa significhi di diverso, rispetto alla liquidazione boots on the ground di Gaza, Cisgiordania e Libano), poi attacca l’Onu “palude antisemita”, e mentre non saprei se dargli ragione su “antisemita”, sicuramente gliela concederei sulla “palude”. Alla Casa Bianca, sede quasi-vacante in attesa dell’ordalia del 5 novembre, Biden stacca un altro assegno da 8 miliardi a Zelensky, gli concede i missili a lungo raggio ma non l’utilizzo in territorio russo. A Palazzo Chigi, ambiguo avamposto dell’iper-atlantismo “alla polacca” e dell’ultra-sovranismo “all’ungherese”, Giorgia Meloni consuma senza dirlo il suo lungo addio all’Ucraina, flirtando con Elon il Facilitatore in attesa di riabbracciare Donald il Vincitore. Il decoro del Paese lo salva ancora Sergio Mattarella, che insiste col tedesco Steinmeyer: “Germania e Italia restano salde al fianco dell’Ucraina”. Vorremmo credergli. Purtroppo quello che dice il Capo dello Stato è sempre meno vero. È meno vero a Berlino, dove il cancelliere Scholz – come scrive Jonathan Littell – “trascina i piedi” ogni volta che deve consegnare armi a Zelensky. Ed è ancora meno vero a Roma, dove la Sorella d’Italia in due giorni si è giocata quel minimo di credibilità internazionale costruita in due anni. Avere a cuore un premio come il Global Citizen Award, e una cena tete-à-tete con l’amico Musk, è comprensibile: per l’Underdog della Garbatella la consacrazione della Corporate America è un upgrading. Ma è stato un errore grave sacrificare il ricevimento offerto dal presidente americano in onore di Zelensky.

E un errore ancora più grave, il giorno dopo, disertare il vertice sull’Ucraina organizzato sempre da Biden, insieme allo stesso Zelensky, e a tutti gli altri capi di governo dell’Ue. Meloni aveva il sacrosanto dovere istituzionale di essere lì, in presenza, a esercitare il suo ruolo di presidente di turno del G-7 (finora dissolto nel nulla, a parte la sceneggiata di Borgo Egnazia, che oggi sta a Meloni come ieri Pratica di Mare stette a Berlusconi). Ma il peggio è arrivato dopo: il comunicato della Presidenza del Consiglio – che al contrario di quello diffuso dai Sette Grandi cancella ogni riferimento ai “fondi destinati al sostegno militare” a Zelensky – è una vergogna planetaria. È penoso che una premier impegnata “a fare la Storia” insieme alla sua sgangherata famiglia di Fratelli, sorelle e cognati, ricorra a simili ipocrisie da Repubblica delle banane. Qui non stiamo discutendo di poltrone Rai, ministri innamorati o deliri neofascisti della meglio “gioventù nazionale”. Stiamo parlando della politica estera di “un Paese fondatore, della seconda manifattura d’Europa, della terza economia del Continente”, come lei stessa ha descritto la “sua” Italia alla platea incomprensibilmente festosa di Confindustria. Non possiamo giocare con le parole, e meno che mai con le armi. Se ci stiamo svincolando dal fronte ucraino, dobbiamo dirlo forte e chiaro: a Zelensky, ai partner occidentali, al Paese. Dobbiamo spiegare perché, due anni e mezzo fa, scegliemmo di sostenere Kiev, convinti che la sua battaglia fosse anche la nostra. E dobbiamo giustificare il perché, adesso, abbiamo deciso di fermarci. A Cernobbio Meloni aveva detto: “Mollare l’Ucraina al suo destino non porterà pace, ma caos… Quindi la nostra è una scelta di interesse nazionale, e non cambierà”. I fatti dimostrano il contrario. Due settimane fa il primo strappo nel Parlamento europeo, con la risoluzione passata con il no di FdI e Lega all’articolo 8 sull’uso di armi Nato esteso in territorio russo: ha gridato vendetta, quel voto della destra tricolore schierata non con la maggioranza Ursula, ma l’opposizione orbanista e lepenista. Ora il secondo strappo, con quel comunicato inopinatamente censurato sullo stesso punto. Che la presidente del Consiglio tema gli umori profondi del “popolo sovrano” rispetto alla guerra in Ucraina, si era capito già dallo scherzo telefonico dei due comici russi Vovan e Lexus, a novembre ’23, quando aveva ammesso: “Vedo molta stanchezza, devo dire la verità, da tutte le parti”. Ma adesso siamo già oltre. Non sono più solo pensieri e parole, a dare corpo a quella “stanchezza”: sono opere e omissioni. Se è così, da cittadini del mondo, vorremmo e dovremmo saperlo. Dubitare dell’escalation e temerla, ragionare dei pericoli di una logica bellicista trasformata in un drammatico “whatever it takes”, riflettere sugli effetti di un’offensiva diretta oltre i confini russi: è del tutto legittimo. Purché lo si faccia a viso aperto e alla luce del sole. Lo stesso rigore etico e la stessa coerenza morale che giustamente pretendiamo da un Campo Largo diviso e da un Pd indeciso, dobbiamo esigerli a maggior ragione dalla premier e dalla sua coalizione. Se Meloni ha scelto di smarcarsi dal resto dell’Occidente, di negare altre armi da usare contro Putin, vada in Parlamento e lo spieghi a eletti ed elettori, invece di imbrogliare la comunità internazionale e la resistenza ucraina a colpi di bianchetto. Ne è capace? E chi si fida della sua buona fede? Qui torniamo a Giorgia una e trina, che non accetta nemici a destra (da Salvini a Vannacci) e usa ovunque la logica dei due forni, scambiando Bruxelles e Washington per la buvette di Montecitorio. Due forni con l’Europa, dove sta un po’ con Von der Leyen e un po’ con l’Internazionale Sovranista. Due forni in America, dove si è inginocchiata a Biden e ora tenta l’Operazione Recupero con Trump.

Il “ballo in Musk” (copyright Flavia Perina) è stato un esercizio di cinismo politico. “Scegliere Elon” – formula usata dalla stessa Meloni – è gettare un ponte verso il Presidente-Golpista, di cui il Turbocapitalista di Tesla e Twitter è il braccio armato. E il discorso della premier all’Atlantic Council è un corrivo Bignami del perfetto sovranista bannoniano, che tra un Michael Jackson e un Prezzolini erige muri e blinda confini. Senza capire che, nei conflitti moderni come in quelli del Novecento, nazionalismo e patriottismo sono la malattia, e non la cura. Ma qui c’è il trumpismo in purezza, e la premier lo sposa per due motivi: non vuole trovarsi spiazzata dell’esito delle presidenziali e, ove mai il Tycoon le vincesse, vuole farsi perdonare quella foto galeotta del 3 marzo, con Biden che la bacia in fronte nella Sala Ovale. A New York il cowboy di Mar-a-Lago ha strapazzato l’indomito Zelensky con una sua inquietante teoria dell’equidistanza tra leader ucraino e Ometto del Cremlino. Non vorremmo che la folle “Dottrina Trump”, all’alba infausta del 6 novembre, diventasse anche la nostra.