Droga e un popolo di ex-tagliatori: ecco «Narcotopia», il reportage del giornalista investigativo Patrick Winn in uscita per Adelphi. Con un saggio di Roberto Saviano

(di Roberto Saviano – corriere.it) – Nella città birmana di Lashio, frustata dagli energici monsoni subtropicali e anche da un regime le cui imprese sono ben note alle cronache, c’è una piccola chiesa cristiana eretta in cima a una collina. Al suo ingresso, appeso a due travi di legno, penzola un singolare batacchio: si tratta di una granata. Corrosa dal tempo, arrugginita, ma ancora perfettamente riconoscibile, fin dalla fondazione di questa casa di Dio, nel 1971, ha svolto la funzione di campana della chiesa, campanello per i visitatori, e tamburo per il villaggio che le sorgeva intorno.
Che immagine è, quella di una chiesa che ha come batacchio una vecchia granata? È immagine di fede, certamente. Di una fede solo in parte religiosa, come si avrà modo di scoprire. Fede nella rinascita di un popolo, nella sua salvezza, nel suo destino. È immagine di violenza, sopra ogni dubbio. Una violenza a cui gli abitanti di quelle porzioni di globo che stanno a cavallo fra la Cina, la Birmania e la Thailandia sono molto abituati e di cui spesso, nel passato lontano (ma non troppo lontano) sono stati anche protagonisti. È immagine di una deroga rispetto al canone, alle regole cui sono sottoposti gli edifici di culto. C’è da scommettere che un prete qualsiasi avrebbe da ridire se uno dei suoi fedeli proponesse l’utilizzo di un cimelio bellico come campanello. Ma l’uomo che costruì quella chiesa non è un prete qualsiasi. Non è neanche un prete, a ben vedere. E le persone per cui la costruì, di etnia Wa come lui, anche loro hanno ribaltato regole e leggi come tessere di un domino. Costrette dalla storia, talvolta. Affamate di potere e di danaro, altre volte. Per le cronache nostrane, soprattutto per quelle made in Usa, lo Stato Wa — dislocato in due aree non contigue, compromesso geopolitico nato da ininterrotti tumulti, migrazioni e guerre — non è altro che un cartello di narcotrafficanti. Spietati tagliatori di teste. Gerarchi corrotti. Riciclatori di danaro sporco. Impareggiabili grossisti di oppio e di eroina, prima, di metanfetamine, poi. Avvelenatori del mondo. Farabutti. Feccia. Ma la storia è assai più complessa. La storia è sempre più complessa.
Le ragioni per cui i Wa sono diventati nei decenni passati, e per parecchio tempo, i più grossi esportatori al mondo di eroina, sono molteplici. Ma se a domanda si rispondesse: grazie agli Stati Uniti e alla Cia, non si sbaglierebbe. Certo, si coglierebbe soltanto una parte della verità, si prediligerebbe un elemento del dipinto piuttosto che la sua variegata interezza. Ma sarebbe un elemento molto grande. È dai tempi della Guerra Fredda che gli americani se ne vanno in giro ad armare gente, soldati per procura che, nelle intenzioni del danaroso committente, dovrebbero prendere a calci il nemico comunista, ma che nella realtà fanno un po’ il cavolo che gli pare. Sfuggono al supposto controllo. Abbracciano cause che ritengono più degne. Si ribellano a un’agenzia che regolarmente — con una regolarità spaventosa, quasi che non imparasse mai dai propri errori — li tratta come fessi d’alta montagna, sempliciotti rissaioli, stupidi illetterati. Ebbene, etica a parte, il problema è che con la stessa spaventosa regolarità, l’agenzia riceve il benservito. Il fesso si rivela assai meno fesso di chi voleva controllarlo.
È precisamente ciò che è accaduto ai Wa, agli Shan, agli Esuli, a quelli che da un giorno all’altro hanno visto fucili automatici piovere dal cielo, letteralmente: intere casse ciondolare fra le nuvole, legate a paracadute americani, e atterrare in villaggi e accampamenti di fortuna o in un fitto bosco, su un’impervia altura, in mezzo a una valle. Cacciati, molti di loro, dalla Cina maoista, refrattaria verso ogni ipotesi di culto religioso, perseguitati, rincorsi fin sulla cima delle montagne, dentro la giungla più fitta, questi uomini e queste donne, questi bambini scalzi e smunti, hanno assistito a una pioggia di fucili. Aerei solcavano i cieli facendo loro dono di armamenti e munizioni. Prendete e usatene tutti. Vi bastino per rispedire a casa i comunisti, con la benedizione dell’amico americano. E proprio con la benedizione della Cia, molti di questi disgraziati, calciati come palloni sgonfi da un angolo all’altro della Birmania, quei fucili li hanno imbracciati davvero. Sono diventati signori della guerra. Trafficanti armati di quell’oppio che per tradizione secolare è il prodotto naturale delle loro terre montagnose, fredde e alcaline, terre che d’altronde non offrono null’altro di cui si possa campare. Da coltivatori di papaveri a feroci cartelli dell’eroina in un battito d’ali. È il sogno che s’infrange, anzi: è un doppio sogno, da intendersi non nel senso schnitzleriano, ma proprio come duplice escursione onirica di due Paesi addormentati sul guanciale dell’utopia. Cina e Stati Uniti si risvegliano assieme, nello stesso istante, come due gemelli così tanto diversi ma così tanto uguali. Scivolato via dagli occhi — ma solo per un attimo — il velo di Maya, il dragone maoista si scopre goffo e impacciato, oltreché crudele: come ha potuto pensare a un travaso di fedeli che dalla chiesa di Nostro Signore passassero a quella del quattro volte grande? Dall’altro lato del mondo: come hanno potuto pensare, gli americani, che lanciare una caterva di fucili, qualche medicina, una manciata di quattrini a qualche gruppo di scontenti bastasse per fidelizzarli a vita? Chi ha garantito agli strateghi occidentali che questa gente, una volta imbracciata l’arma, non la rivolgesse contro il suo grossolano, impreciso e ruffiano benefattore? Ecco, se un’immagine può tornarci utile per riassumere il tema centrale di questo volume, allora sarà quella di una bomba con i segni costruttivi e il logo di una Cina sclerotizzata dal comunismo. Ma una bomba, per esplodere va pur azionata. E qual è la mano che innesca il congegno? Che passaporto ha il bombarolo? Lo stesso di chi ha armato talebani e mujaheddin in Afghanistan contro la Russia; lo stesso di chi ha sversato armi e denaro in una teoria di Paesi latini, senza star troppo ad arrovellarsi se fossero forze governative, ribelli, fascisti, narcotrafficanti o che. Il copione è ormai un canone; cambia solo, di volta in volta, chi accatasta l’esplosivo, ma l’impronta sull’innesco è immancabilmente la stessa. Come in questa storia, che però offre una nuova gamma cromatica, sfumature inedite, clamorose misture che in casa nostra, sulla nostra poltrona, nelle nostre strade, ci proiettano addosso riverberi tutt’altro che sbiaditi, per quanto la sorgente possa apparire distante.
Il suo punto focale è a Banna, sul versante cinese del confine con la Birmania, in una missione cristiana guidata dal pastore William Marcus Young, soprannominato dai Wa e dai Lahu l’«Uomo-Dio» e responsabile, oltreché della loro conversione religiosa, della creazione del loro stesso alfabeto, non possedendo gli indigeni una lingua scritta. Geremia, Mosè, Pietro: questi i nomi dei nuovi nati all’interno della missione, da ricondurre, secondo il pastore, a una vita etica lontano dall’alcol, dall’oppio, e dalle decapitazioni a cui alcuni gruppi sulle cime più alte sono adusi. Fra i nuovi nati, nell’anno 1944, c’è anche Saul — chiamato come il primo re d’Israele, colui che unifica le tribù disperse — che poi diventerà Saw Lu, fervente cristiano, costruttore di una chiesa cui si accede bussando con una granata. Le vicende di questo libro, imponente per contenuto e ambizioni, si snodano attraverso foreste umide e insidiose e sono popolate da personaggi i cui nomi, in certe occasioni, balzano fino alle cronache nostrane e ancora talvolta puntellano i resoconti della Dea, la Drug Enforcement Administration americana: Wei Xuegang e Bao Youxiang, politici, narcotrafficanti, o entrambe le cose? Khun Sa, il generale Lee Wen-huan, Zhao Nyi Lai, ma anche leader tribali come Padrone del Creato — che secondo i miliziani possiede il dono della levitazione —, il Principe Mahasang, insieme con la controparte americana — gli agenti della Dea e quelli della Cia, i presidenti, i funzionari diplomatici — amica, nemica, cospiratrice, sostenitrice, traditrice, a seconda dei casi, e capace di passare da un ruolo all’altro con uno schiocco di dita. Sono foreste che non mancano di sorprendere, perché trasformano spesso e volentieri i nani in giganti, le tribù in eserciti, i disgraziati in disgrazie.
È una foresta molto pericolosa, quella di cui leggerete, popolata da serpenti e bestie feroci, presidiata da milizie e contrabbandieri armati, costellata di capanni in cui si trasforma l’oppio in eroina, di laboratori in cui si cuoce la meth e in cui antiche, superstiti piantagioni di papaveri resistono ancora alla prova del tempo e alla Guerra alla droga statunitense. E fa sorridere come l’autore utilizzi il termine «tribù» per descrivere non i gruppi che vivevano al suo interno e che oggi, in molti casi, risiedono nelle città tutto intorno, ma piuttosto le agenzie di provenienza atlantica, le cui faide intestine hanno provocato enormi sconquassi, notevoli imbarazzi e, indiscutibilmente, il più alto numero di vittime in quell’area geografica chiamata Triangolo d’Oro che però, spesso e volentieri, fatica a ottenere perfino la corrente elettrica.