Antonio Tajani e Giorgia Meloni

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Dal decreto-carceri alle norme sulla cittadinanza, dai diritti civili all’Autonomia, dalla collocazione in Europa alle elezioni Usa, Forza Italia è su posizioni sempre più distinte e distanti da quelle di Meloni e di Salvini

Lo sappiamo bene, purtroppo. Ci sono due guerre spaventose, ci sono le armi Nato in mani ucraine che fanno fuoco in territorio russo, ci sono gli estremisti israeliani che attaccano i civili palestinesi in Cisgiordania. E noi siamo qui, in quest’acido agosto italiano, a occuparci di Massimo Boldi. Non ce ne voglia “Cipollino”: ma più passa il tempo — e ormai siamo quasi alla boa dei primi due anni — e meno riusciamo a capire in che cosa Giorgia Meloni abbia «cambiato in meglio il nostro Paese».

L’eroe di tanti cinepanettoni non meritava il baccanale d’odio apparecchiato dai soliti antropofagi del web: tutt’al più, per l’ennesima volta, l’esecrazione eterna per tutti i frizzi lazzi rutti peti e cachinni che ci ha lasciato sotto l’albero da un paio di decenni. Resta il fatto che tutto il suo entusiasmo per questa Italia meloniana che migliora è veramente mal riposto. E la presidente del Consiglio, dopo aver solidarizzato con l’amico attore per le offese gratuite ricevute dagli hater, farebbe bene a porsi qualche domanda su questi fiumi di rabbia che denuncia, ma che lei stessa, insieme ai suoi Fratelli, è la prima ad alimentare.

Al di là dei rituali festini per l’occupazione che cresce di qualche zerovirgola o per la quinta rata di un Pnrr che non riusciamo a spendere, colpiscono le tante fratture sociali e culturali che questa destra al potere sta creando nel Paese. Se c’è un clima d’odio diffuso, se c’è una polarizzazione sempre più esasperata, questo non dipende affatto dall’opposizione che non riconosce legittimità politica al governo e alla sua maggioranza

Al contrario, sono il governo e la maggioranza che si comportano da opposizione di se stessi. Parlando solo ai rispettivi blocchi elettorali, tutelando solo le nicchie corporative di riferimento, escludendo e criminalizzando tutto ciò che si muove al di fuori del Make Italia Great Again, versione tricolore del Maga trumpiano, che si nutre della stessa retorica nazional-populista, della stessa “Identità” fittizia, ma soprattutto della stessa rabbia contro il diverso, l’altro da sé.

Qualcuno si era illuso che la Sorella d’Italia avrebbe approfittato della partita delle nomine a Bruxelles per concludere la sua decisiva metamorfosi. Che l’Underdog del Fronte della Gioventù — esaurita la fase reazionaria e minoritaria del “polo escluso” — sarebbe entrata finalmente nell’età adulta e avrebbe compiuto fatalmente il destino della nuova “destra di governo”: europea ed europeista, costituzionale e solidale, al fianco delle grandi famiglie politiche dell’Unione.

Non è andata così. Se possibile, la contro-svolta meloniana ha reso la sua “destra di lotta” ancora più estrema, più truce, più sguaiata. La premier — isolata dai Patrioti in Europa e scavalcata da Salvini in Italia — ha smesso di oscillare. Tra Von der Leyen e Vannacci, preferisce ricoprirsi sul secondo che non allearsi alla prima.

Cos’altro è diventata, questa rovente estate meloniana, salviniana e vannacciana, se non una continua esalazione di fumi tossici generati da un’ideologia oscurantista e cattivista, cieca e sorda di fronte alla realtà?

Le crociate da atei devoti contro il Dioniso delle Olimpiadi francesi. Le squallide proteste anti-gender sul cromosoma di Imane Khelif. L’esaltazione della pugile-patriota Angela Carini, promossa testimonial a sua insaputa del Ponte sullo Stretto. La ripugnante discussione sui «tratti somatici» di Paola Egonu, lodata come «esempio di integrazione» in un penoso tweet di Bruno Vespa e “violata” per l’ennesima volta da qualche autoctono imbecille in un bel murale della street artist Laika.

Neanche lo sport si salva dai primatisti bianchi de’ noantri, sempre pronti a farci vedere “come combatte un italiano”. Egonu è veneta, Sylla è siciliana. Ma i Fratelli di Giorgia non lo sanno e non lo vogliono sapere. Per loro non conta il Paese reale, dove giovani di seconda generazione — nati qui da famiglie di migranti — sono e si sentono più italiani dei nostri figli.

Ai razzisti da bar seduti sui banchi del nostro Parlamento non interessano quel milione e 200 mila ragazzi seduti sui banchi delle nostre scuole che devono aspettare i 18 anni per non sentirsi più “stranieri”. Se ne fregano dello ius soli, dello ius scholae, dello ius culturae.

Oggi come negli Anni Venti e Trenta dell’Europa Nera, il loro credo è ancora Blut und Boden: sangue e suolo. Tutto il resto è meticciato. Dunque, fuori dalla “Nazione” e dalla cittadinanza, fuori dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia e dai diritti fondamentali. Questo criterio di esclusione, disumano e anti-storico, non vale più solo per la “razza”. Lo Stato Etico all’amatriciana lo subiscono tutti i soggetti deboli o “deviati” dalla fase.

La prova tangibile del “cattivismo” risfoderato dalla destra meloniana dopo la rottura con l’Europa è Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, già rinviato a giudizio per aver spifferato al “camerata di merende” Donzelli le relazioni del Dap coperte da segreto sui colloqui in carcere tra i parlamentari Pd e l’anarchico Cospito.

A Ferragosto questo fiero Fratello d’Italia si è recato in carcere a Taranto, e ci ha tenuto a far sapere al mondo che lo ha fatto solo per incontrare la polizia penitenziaria: «Io non mi inchino alla Mecca dei detenuti», ha detto (per inciso, fumandosi una sigaretta sotto il cartello “vietato fumare”).

Non sappiamo quale miseria morale possa spingere un sapiens di media intelligenza a fornire una spiegazione così agghiacciante e ripugnante, di fronte a un inferno carcerario che ha già bruciato le vite di 65 disperati in cella.

Sappiamo però che uno così non merita di fare né il sottosegretario né il parlamentare, perché la Costituzione vuole che chi ricopre cariche nelle istituzioni lo faccia “con disciplina e onore”, e a lui mancano sia la prima sia il secondo. Sappiamo purtroppo che questo modo osceno di pensare la società e la vita riflette esattamente quello di chi oggi comanda il Paese, e che non a caso solo una settimana fa ha risposto all’emergenza stendendo un ridicolo pannicello caldo sulle piaghe delle patrie galere e di chi ci muore dentro.

Ma sappiamo anche un’altra cosa: dal decreto-carceri alle norme sull’integrazione, dai diritti civili all’Autonomia Differenziata, dalla collocazione in Europa alle elezioni in America, si è aperta una faglia, che vede Forza Italia su posizioni sempre più distinte e distanti da quelle di Meloni e di Salvini.

È probabile che questa parziale autonomizzazione politica di Antonio Tajani sia scattata grazie alla vecchia cinghia di trasmissione tra la famiglia Berlusconi e il partito-azienda, che i figli hanno rimesso in moto due mesi fa, «nel nome del padre» e del suo «amore per la libertà».

Ma se l’ispirazione è sincera, allora c’è da chiedersi come possano convivere l’idea di centro-destra custodita dagli eredi del Cavaliere e la dottrina della destra-destra propalata dai nipotini di Almirante. C’è da domandarsi come possano sentirsi a casa loro, i sedicenti “moderati”, nella coalizione gestita come una caserma dalla “donna sola al comando”.

Il 14 ottobre 2022, dopo un sacrosanto “vaffa” all’indirizzo del traditore Ignazio La Russa, l’Unto del Signore agitò in aula al Senato un famoso pezzo di carta, dove di suo pugno aveva scritto: “Giorgia non è disponibile ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo: supponente, prepotente, arrogante, offensiva”. Aveva aggiunto anche “ridicola”, poi l’aveva cancellato. Se quel foglietto esiste ancora, è il momento che Marina e Pier Silvio lo ritirino fuori dai cassetti di Villa San Martino.