(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Invidio le sicurezze dei tanti che negli ultimi giorni hanno messo in croce Nicola Turetta, il padre dell’assassino di Giulia Cecchettin. Riconosco che, estratte dal contesto in cui furono pronunciate, le sue parole sembrano rimpicciolire il femminicidio alle dimensioni di un incidente di percorso. 

Ma ho provato a mettermi nei panni di quell’uomo. Ho immaginato di sedermi nel parlatorio di un carcere davanti a un figlio omicida, di sentirmi travolto dal senso di fallimento e dibattuto tra lo sgomento per quel che aveva fatto e la paura che potesse ripeterlo su di sé.

Che cosa gli avrei detto? Chissà se sarai stato capace di limitarmi a rassicurarlo: «Hai sbagliato e pagherai, ma resterò sempre e comunque al tuo fianco». E se sarei riuscito a tacere sul delitto (da un lato era troppo tardi per parlarne, dall’altro troppo presto), invece che tentare di minimizzarlo. Il signor Turetta ha sbagliato, certo, ma è comodo discettarne dalla tastiera di un computer: a differenza sua, io non ero lì, col cervello annebbiato dall’angoscia e dal rimorso. Posso solo pensare quale fosse per lui, in quel frangente, la priorità assoluta: che il figlio rimanesse in vita. È il primo comandamento di qualsiasi educazione sentimentale, quello che viene spesso citato dopo un femminicidio: amare una persona significa anzitutto desiderare che rimanga in vita. Anche se ti ha deluso o ferito. Persino se ha ucciso qualcuno, uccidendo un poco alla volta anche te.