(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Il tizio sui trent’anni che entra in una pizzeria romana rifiutandosi di mettere la museruola e il guinzaglio al suo molosso, ma pestando a sangue il padre di famiglia che osa farglielo notare, è la versione estrema di una categoria di persone con cui ormai veniamo a contatto ogni giorno.

Presidenti della repubblica dei fatti loro che spiaggiano l’auto per ore in doppia fila, sul treno ascoltano vocali, canzoni e sparatorie western a tutto volume, per strada e nei luoghi pubblici tagliano code e non rispettano precedenze. Ad accomunarli è la reazione alle critiche: sorpresa, indispettita, talvolta addirittura furibonda, come nel caso dell’umano di riferimento dell’incolpevole molosso. Invece di chiedere scusa, si arrabbiano. E non perché pensano di avere ragione, ma perché pensano che nessuno abbia il diritto di dir loro che hanno torto.

Dare del prepotente a un prepotente, o del menefreghista a un menefreghista, è diventata un’attività estremamente pericolosa. Così si finisce per sopportare i piccoli soprusi come già si sopportano da tempo quelli grandi: in silenzio, imponendosi un autocontrollo da maestri zen, che però, latitando i maestri zen, lascia addosso un senso di frustrazione e di rancore. Forse anche da qui nasce il desiderio dell’«uomo forte».

Desiderio pericoloso ingannevole, dato che chi si presenta come vendicatore degli oppressi si rivela molto spesso il peggiore degli oppressori.