Seguire il ciclismo è mettersi in contatto con un popolo e con i suoi eroi. La Grande Boucle omaggia il Campionissimo. E domani scala il mito Galibier

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(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – I corridori vanno. I lunghi rettifili padani, le cittadine e i paesi dove il bucato sta ai balconi come orgogliose bandiere della provincia italiana sono già alle loro spalle. Duramente pedalano verso il traguardo di Torino. L’eterna piana è fatta per i velocisti: a meno che non ci siano imboscate. Gli aedi del giorno dovranno aspettare l’ultimo chilometro per scegliere i loro eroi, vincitori e sconfitti, perché il ciclismo, al contrario di altri cimenti più crudeli, non dimentica i vinti. Anzi li ama.

Volete capire questo sport che è nato moderno, umilmente tecnologico nell’età delle carrozze, prima delle smanie della motorizzazione, e a Filippo Tommaso il futurista non parve vero di annetterselo da celebratore della macchine e innografo dell’energia qual era, oggi vigorosamente già antico? Allora dovete andare sulle strade del Piemonte, oggi e domani.

Sulla loro scia, a cinquanta all’ora, i “routiers’’ del Tour udranno incalzare le grida dei tifosi. Sono, a quella velocità, voci informi, richiami vocali e basta. ‘’Pogacar’’… Wingegaard’’…Roglic …: urlano gli spettatori tirando a indovinare nel lampo di maglie multicolori che sfreccia davanti. I corridori, tesi, rabbiosi, sembrano pedalare a cinquanta all’ora apposta, strappano via come per sottrarsi alle invocazioni. Inutilmente. Più forte vanno più li tallonano le grida. Al contrario del calcio che ha boati legati allo svolgersi del gioco il ciclismo ha un’eco che sembra non potersi mai stancare. Curvi nello sforzo i protagonisti hanno il volto duro. Fuggono a precipizio verso la gloria, che dura un giorno, che li aspetta in quell’ultimo chilometro a Torino. Sì, questo sarà un giorno per loro, gli aristocratici della velocità, gli eredi dell’indimenticabile Di Paco, otto tappe in un Tour, un record, dotato da Dio della velocità felpata del ghepardo. Era allora un’arte, la velocità, lo sprinter si lanciava da lontano, senza nascondersi e confondersi nella depressione dei compagni di squadra, dei pesci-piloti dell’ultima spanna.

Non so quel regista geniale e maligno si sia inventato un ‘’debout italienne’’ nel cuore dell’anno in cui Francia e Italia son tornati quasi ai musi e ai dispetti di Crispi, del vallo alpino e dello schiaffo di Tunisi. Sarà un altro atto di ‘’grandeur’’ sfacciata da sottoporre alle furie di madame Melonì: nell’anno di uno dei Giri più noiosi della storia, voilà: un frammento di Tour per farvi vedere come si fa…

Parliamoci chiaro. Ho vissuto in Francia alcuni anni. Ciclisticamente, ti abitui a sentir salmodiare che il Giro cisalpino è poco più di una serie di riposanti paradisi in venti tappe, poco più di un pellegrinaggio da trattoria in trattoria: il Tour, invece… sì che è una macchina infernale che demolisce uomini corridori dirigenti giornalisti fotografi eccetera. Epico come la Chanson de Roland!

Ogni volta che la carovana delle due ruote si mette in cammino, in Italia Francia Spagna, tutti a ripetere uffa! che il ciclismo è morto e sepolto, che dei campioni si è persa la semenza, che la pedivella, seppur coniugata con start up moderniste e innovative, è un ferrovecchio da museo. Gli esteti poi vi diranno che il ciclismo non è uno sport, è un genere, come l’Opera e il western. E i generi declinano e spariscono come è sparita l’epopea in versi.

Se oggi vi allineate sulle strade del Piemonte, beh, potrete rispondere che quello è proprio il suo fascino: kermesse in costume e supplizio di fatiche, gigantesco business e poema lirico, commedia e guerra selvaggia. Di più. Seguire una corsa ciclistica è davvero mettersi in contatto con un popolo. Nonostante il doping, quello vero e quello gravemente presunto, per fortuna c’è chi continuerà ostinato a scrivere della sua sublime purezza. Uno degli ultimi fenomeni di misticismo individuale e collettivo non bugiardi o violenti dunque. I quattrini ? vabbè, ma alla fine quel che conta, quello che farà scalare domani in un sol balzo Sestriere, Monginevro e Galibier è lo Spirito.

Il mito di Coppi e Bartali
Quelle attraversate oggi nell’Alessandrino sono strade, colline consacrate: Costante Girardengo, “l’omino di Novi’’ che poteva vincere otto tappe su dieci ma che, stremato da una salita, scese di sella e disegnò una croce nella polvere, a segnare la resa alla fatica. E poi naturalmente lui, Coppi, da Castellania
. Orio Vergani lo vide nascere sulle dure balze dell’Abetone quando lasciò indietro l’invincibile delle Dolomiti, il suo capitano Bartali. Ma il nido dell’airone furono gli zig zag su queste colline fra le spire di una natura affettuosa. Dopo aver salutato il Tour il suo sciame di maglie colorate e di ruote lievissime a Tortona, arrampicatevi dunque per strade in salita che sembrano disegnate con un dito, con la metrica scandita dalle viti: dove il garzone di salumeria faceva la gamba sulla vecchia bici del padre contadino per consegnare gli affettati. E raccogliere le mance.

Domani sarà già l’ora dei “grimpeur”, razza eletta, solitaria che sdegna il chiasso e la confusione plebea del gruppo, che ama il silenzio. Luoghi e nomi rimontano le tappe della leggenda della Grande Boucle: Puy de Dome per Bahamontes, l’aquila di Toledo; la Chartreuse sotto il diluvio per Gaul; l’Izoard di “Gino il pio’’. Mi domando di chi sarà domani il Galibier.