(di Michele Serra – repubblica.it) – C’è un nesso tra il recupero di tonnellate di rifiuti umani sull’Himalaya (lo scioglimento dei ghiacci lo consente e anzi lo suggerisce) e la rimozione di un paio di cacche di turisti sulla scalinata che porta alla Cupola del Brunelleschi? Sì, c’è un nesso: perfino tecnico, perché in entrambi i casi si tratta di ascensioni, e in entrambi i casi gli escrementi umani fanno parte del lascito del turismo di massa. Troppa gente, e inevitabilmente anche gente impreparata, tra gli aspiranti alla vetta.

Risalgono ai lontani anni Ottanta del Novecento le prime denunce degli esiti della “turistizzazione” dell’Everest. Centinaia di spedizioni di centinaia di persone ognuna, dunque le deiezioni di decine di migliaia di persone. Bombole del gas, tende, vestiti, plastica, carta, scarti alimentari, defecazioni destinate all’apparente immortalità dei ghiacci. E cadaveri, cinque quelli recuperati ultimamente, centinaia quelli che il ritiro dei ghiacciai potrebbe restituire, come militi ignoti dell’avventura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

L’idea che tutti possano fare tutto, e andare ovunque, è democratica, non c’è dubbio. Ma si scontra contro il limite oggettivo della nostra brulicante presenza: ci sono luoghi e situazioni che non reggono l’urto delle masse. Firenze e Venezia sono una specie di prova del nove di questa incompatibilità (che non è ideologica, è oggettiva) tra il singolo luogo e il numero dei visitatori che lo affollano, e spesso lo offendono. Ognuno di noi ha un ingombro. Viene da invocare il numero chiuso (anche sull’Everest). Se ci sono alternative, bisogna trovarle in fretta.