
(Andrea Zhok) – Il tema dell’Intelligenza Artificiale e delle sue insidie è da qualche tempo di moda.
Tra le “insidie” più sentite (e più risentite) c’è l’idea che l’Intelligenza Artificiale possa sostituire professioni qualificate, intellettuali.
Ora, in questo timore e in questa attenzione c’è un fraintendimento di fondo. Si immagina che la minaccia provenga dall’IA, mentre essa proviene da scelte organizzative della produzione e del lavoro, scelte che precedono di almeno due secoli ogni discussione sull’IA.
La ragione per cui è oggi realistico che un medico, un avvocato o un professore possano essere presto o tardi sostituiti da un’istanza meccanica non-umana è che da quasi tre secoli la forma presa dalla produzione economica mira sistematicamente ad assimilare il lavoro umano (ogni tipo di lavoro umano) ad istanze meccaniche non-umane.
Ci si sveglia oggi perché ad essere minacciati appaiono tradizionali mestieri d’élite, ma questa è semplicemente l’ultima propaggine del medesimo processo che ha sostituito la produzione artigianale con la produzione seriale, meccanizzata. La produzione artigianale era notoriamente diseguale e quantitativamente più ristretta della produzione seriale, che si parli di pelletteria, falegnameria, lavorazione del ferro, costruzione di strumenti musicali, ecc. Questa disuniformità della produzione artigianale consentiva vertici di eccellenza oggi irraggiungibili (si pensi alla tradizione dei maestri liutai come Stradivari o Guarneri del Gesù), ma naturalmente non garantiva uno standard, e dunque per distinguere un lavoro ben fatto da un prodotto mediocre richiedeva la maturazione di una capacità di giudizio nel fruitore.
La produzione meccanizzata produce dunque tre effetti: tende a perdere sistematicamente sul piano dell’innovazione sperimentale, tende a perdere le punte di eccellenza, e tende a degradare il gusto medio dei fruitori, cui viene offerto un prodotto standardizzato, di cui non bisogna riconoscere le peculiarità. Al tempo stesso, naturalmente, la produzione seriale consente di portare alla luce quantità di prodotto enormemente superiori a quelle disponibili in passato, abbattendone i prezzi e dunque incrementandone l’accessibilità.
Per poter ottenere questo risultato fu necessario utilizzare l’esperienza pregressa dei maestri artigiani. Tale apporto consentì di costruire apparati produttivi seriali cui potevano dare un contributo produttivo anche lavoranti che mai avrebbero passato la soglia di una bottega artigiana. Le competenze più alte e specifiche tendono così dapprima a restringersi, nei numeri dei soggetti coinvolti, per poi ridursi anche quanto all’altezza e specificità stessa di quelle competenze, che sempre meno persone sono in grado di valutare.
Nel passaggio dall’uomo artigiano all’operaio alla catena di montaggio, l’uomo viene sempre più assimilato alla macchina e questo permette ai processi di natura meccanica, con il loro carattere anonimo e infinitamente iterabile, di diffondersi. La meccanizzazione del processo produttivo conferisce una potenza inedita alla produzione, al prezzo di smarrirne gli aspetti qualitativamente irriducibili.
Oggi, quando ad un medico si richiede di affidarsi ai “protocolli”, conferendogli garanzie legali e di deresponsabilizzazione se i “protocolli” sono seguiti pedissequamente, si sta procedendo alla meccanizzazione progressiva dell’arte medica, che appunto scompare come arte, scompare come fattore che sollecita lo sviluppo di facoltà diagnostiche e osservative speciali. Ciò avviene nel nome di una “standardizzazione” che risulterà necessariamente ottusa nella valutazione dei casi “eccentrici”, ai margini della distribuzione normale della gaussiana, ma che garantirà risposte rapide, economiche e di massa nella maggioranza dei casi ordinari. Quanto più questo processo avanza, tanto più ciò che i medici in carne ed ossa fanno è “riducibile a meccanismo”. Più standardizzato il servizio, tanto più rapidamente ed efficacemente esso potrà venire sostituito da procedimenti di Intelligenza Artificiale, che mediamente produrranno diagnosi e ricette rapide, massive, economiche e anche efficaci, per i casi vicini alla distribuzione media. Naturalmente il prezzo da pagare per questo beneficio è la sempre maggiore irriconoscibilità di tutto ciò che presenta aspetti eccentrici, la sempre maggiore ottusità nei confronti delle specificità individuali.
Lo stesso processo bussa alle porte quando nell’insegnamento, scolastico e a maggior ragione universitario, si promuove l’esigenza dell’uniformazione dei programmi e delle metodologie di insegnamento. Quando inizia a diventare senso comune che se si studia “letteratura latina” o “epistemologia” ciò deve garantire che si studi LA STESSA COSA – perché il nome è lo stesso – si prende la strada per cui potremo fare un solo corso standard filmato, riproducendolo infinitamente ad un numero indefinitamente ampio di studenti. E gli aggiustamenti o aggiornamenti potranno essere consegnati all’IA, che si affiderà alle forme pregresse ricombinate. Anche questo processo avrà il grande vantaggio di abbattere drasticamente costi e tempi di produzione del prodotto “lezione”, con il marginale problema di distruggere in forma ultimativa buona parte di ciò che un tempo rappresentava “cultura umana”. Che lo si sappia oppure no, quanto più ci si adegua agli standard richiesti dall’esterno, dai “ministeri”, dalle “autorità internazionali”, ecc. tanto più si lavora per l’uniformazione e infine la meccanizzazione della produzione culturale, ad ogni livello.
In generale, quanto più questo processo va avanti, tanto più “perdibili” (o senz’altro scadenti) appaiono i contributi umani e tanto più sensata appare perciò la loro sostituzione con uno standard meccanico.
Ma forse è bene così – chi sono io per contestare il progresso – basta che non vi siano infingimenti e che si tratti di una scelta consapevole, senza che venga camuffata da “attenzione alla qualità”.
“mentre essa proviene da scelte organizzative della produzione e del lavoro, scelte che precedono di almeno due secoli ogni discussione sull’IA.”
eh caro Zhok raramente sono stato così d’accordo con te.
Quando il virus del capitalismo ha contagiato il comunismo di stato cinese ne e’ uscito lo schifo più schifo che c’è… Mao si tormenterà nella tomba confrontando quello che si era prefissato di fare con quello che poi si è realizzato.
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Buongiorno,
Zhok, purtroppo non ha capito niente di cosa è l’Intellgenza Artficiale.
Proprio perch non “è”.
E? un insieme di fenomeni, eventi, procedimenti, utilizzi, “virtuali” per definizione.
Come tanti, “ignoranti in materia” deve significarla come oggetto assimilabile al meccanico, per Lei, come latri altri è obbligatoriamente un automa, un robot, non è in grado di pensarla “altro”.
E conseguentemente deve arrivare alla risposta precotta e cioè che alla fine è la forbita riassunzione sintetizzante di qualcosa che già esiste dispersa in mille rivoli.
L IA sarebbe bene chiamarla intelligenza “non umana”.
Ella confonde la “moda” attuale con l’intera IA mentre invece si tratta di un uso minore e deleterio di una parte ridotta dell’IA quella che “imita” le chat, il loro modo di esistere, il loro paradigma: a domanda risposta.
L’IA non ha nulla a che vedere con la interpretazione “meccanica”, non la si può comprendere se come “modello” si intende un oggetto che “esegue”.
E’ un ambito virtuale nella sua genetica, non è un’imitazione “furba” di azioni reali.
L’IA è generata virtualmente non è la virtualizzazione dell’esistente.
I big Data che sarebbero la presunta base per costruire le risposte, per le ottimizzazioni, per i risultati “velocissimi” sono una generazione dell’IA e non l’accumulo di dati inseriti “a mano”: la loro esistenza è già IA in quanto non sono dati “puri” ma algoritmi generatori di dati.
Un’intelligenza umana non sarebbe in grado di “generare” un algoritmo “al volo”, deve averlo prima di utilizzarlo.
Durante la lotta alla pandemia, non esistevano “dati” precedenti, non esistevano “algoritmi” precedenti, non esistevano storie precedenti.
La simulazione dell’assurdo non era materiale umano.
Basterebbe chiedersi:
dove risiede fisicamente l’intelligenza umana ?
dove risiede fisicamente l’intelligenza Artificiale?
La prima risposta non è completamente “soddisfatta”, approssimativamente viene confinata all’interno di elementi presenti principalmente nella scatola cranica ma è estesa all’intero corpo umano.
Ma è sempre approssimativo perchè le attività magnetiche del corpo umano non si fermano ai limiti “fisici” del corpo.
L’intelligenza Artificiale è “distribuita”, non è contenuta in un computer ma in uno infinito insieme di elementi molto differenti da un computer.
Pensare che un algoritmo sia distribuito in migliaia di elementi virtuali localizzati in data center e/o impianti presenti in 5 continenti non è per nulla paragonabile all’intelligenza umana.
Un cervello umano, per quanto geniale non riesce ad immaginare “graficamente” un numero elevato ad esempio un triliardo di triliardi, non è in grado di “pensare” contemporaneamente, non in sequenza, la geografia di 8000 comuni, gli elementi dell’IA sì.
se vuole legga questo documento
ENEA CRESCO IN THE FIGHT AGAINST COVID-19
che documenta una parte del lavoro fatto per combattere la pandemia da uno delle centinaia di HPC riuniti in uno dei tanti “consorzi” collaborativi, questo presente in Italia.
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