Dal 11 novembre 2023 le Camere temporeggiano sull’elezione del giudice mancante della Corte costituzionale. Cessata Silvana Sciarra, seconda donna a presiederla dopo Marta Cartabia, i partiti aspettano dicembre, quando ne scadranno altri tre. Per lottizzarla completamente

(di Sergio Rizzo – lespresso.it) – Si profila un’altra infornata spaventosa di nomine, la più imponente degli ultimi anni. Ci sono da riempire – dice il Centro Studi CoMar che segue puntualmente le evoluzioni di questo scenario – 694 caselle nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali di società pubbliche. Ma non fatevi prendere dall’ansia: per lo spettacolo c’è ancora tempo. Tanto per cambiare, la politica che ci governa non concede neppure in questa occasione una deroga alla regola aurea non scritta, ma in vigore da tempo immemore ormai. Cioè che, nella scala dei fattori che ispirano questa curiosa gestione della cosa pubblica, gli interessi della collettività vengono sempre dopo quelli dei partiti, quando non dei singoli loro leader. Il governo di Giorgia Meloni ha quindi stabilito che l’ordalia delle nomine avrà inizio dopo le elezioni dell’Europarlamento. Soltanto in seguito al verdetto delle urne si saprà chi saranno i nuovi amministratori delle grandi e piccole imprese pubbliche. Quelli della Cassa depositi e prestiti, la più grande holding di Stato che controlla roba come Eni, Poste e Autostrade. Quelli delle Ferrovie dello Stato, destinatarie della maggior parte dei fondi per le infrastrutture del mitico Pnrr. Quelli della Rai, da non confondere con TeleMeloni. E altre ancora.

Per quale motivo si rimanda tutto a dopo le elezioni? Elementare, Watson. Perché le elezioni serviranno a confermare i vecchi o a fissare i nuovi rapporti di forza fra i partiti della maggioranza, con le relative quote di spettanza nella lottizzazione degli incarichi. Per non parlare dei trombati alle urne che andranno sistemati nei consigli di amministrazione, così come è stato già fatto con legioni di candidati non eletti alle ultime Politiche. Così ha funzionato, funziona e funzionerà in un Paese dove chi ha il potere, anche se per mandato popolare, considera di poter disporre a proprio piacimento della cosa pubblica.

Ma c’è qualcosa, se possibile, di ancora più discutibile dello slittamento per ragioni politiche delle nomine pubbliche. È il caso di una sola nomina, che non va decisa dal governo bensì dal Parlamento in seduta comune. Da sabato 11 novembre 2023 la Corte costituzionale è monca. La presidente Silvana Sciarra, seconda donna nella storia ad arrivare al vertice dell’istituzione, è scaduta. Con lei sono scaduti anche i vicepresidenti Nicolò Zanon Daria de Pretis, l’uno apprezzato dal centrodestra e l’altra in sintonia con il centrosinistra, che erano stati nominati dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. I quali sono stati immediatamente sostituiti dal suo successore Sergio Mattarella. Che ha designato Antonella Sciarrone Alibrandi, ex sottosegretaria al dicastero per la Cultura del Vaticano, e Giovanni Pitruzzella, nominato a suo tempo capo dell’Antitrust dai presidenti delle Camere del centrodestra, Renato Schifani e Gianfranco FiniAlla sollecitudine di Mattarella non ha tuttavia fatto riscontro quella del Parlamento. Con il risultato che da sette mesi la Corte costituzionale attende che il vuoto si riempia.

Uno su quindici, cosa volete che sia: la Consulta può lavorare ugualmente. Certo. Anche se avere un giudice costituzionale in meno qualche problemino lo crea. Almeno per la durata dei procedimenti, che già non è fulminea, vista anche la complessità delle questioni: in media 227 giorni. Openpolis ha calcolato che dal 2009 al 2023 la Corte ha emanato 4.421 decisioni, con una media di 295 l’anno. E se il numero complessivo è calato dalle circa 340 decisioni del 2009 alle 229 (di cui ben 210 hanno riguardato questioni di legittimità costituzionale) del 2023, va considerato che ormai le sentenze rappresentano quasi l’80 per cento, mentre erano meno della metà nel 2009. Nell’ultima relazione annuale il presidente della Corte Augusto Barbera ha spiegato che la flessione non «corrisponde a un effettivo allentamento delle problematiche costituzionali», le quali «appaiono anzi più vive che mai sotto l’effetto di molteplici spinte politiche e sociali». Per dirne una: c’è sempre lo scontro fra lo Stato e le Regioni che, da quando è stata approvata la riforma del Titolo V della Costituzione, è andato inasprendosi. E seppure negli ultimi due anni le impugnazioni delle leggi regionali davanti alla Consulta sono diminuite, perché il governo e i poteri regionali tendono sempre più (per fortuna) a comporre i contrasti, adesso incombe l’autonomia differenziata, capace di infiammare di nuovo il fronte. Poi c’è tutto il resto, per di più con l’attuale maggioranza di governo che punta a cambiamenti radicali della stessa Carta costituzionale.

Ce ne sarebbe abbastanza perché dalla classe politica arrivasse un segno di responsabilità, colmando in fretta il vuoto della Corte. Una faccenda così importante viene invece relegata a problema marginale e questo la dice lunga sulla considerazione che certa classe politica ha della Carta fondamentale. Tutto fa pensare che la soluzione del quindicesimo giudice debba restare nel cassetto per calcolo politico, anche in questo caso per rispettare la regola oscena della lottizzazione. Che ovviamente non può risparmiare nemmeno l’istituzione garante della Carta fondamentale. Un terzo dei quindici giudici è nominato dal presidente della Repubblica, un altro terzo viene eletto dalle magistrature e il rimanente terzo è responsabilità del Parlamento in seduta comune. Ma con l’aria che tira tappare un buco isolato non è facile. I giudici costituzionali devono avere i due terzi dei voti del Parlamento in seduta comune. Dopo il terzo scrutinio sono sufficienti i tre quinti: ne servirebbero dunque almeno 363 su 605, tenendo conto anche dei cinque senatori a vita. Ma sommando tutti i voti della coalizione che sostiene il governo di Meloni non si arriva che a 354. Ne consegue che per far passare un giudice costituzionale scelto dal centrodestra, che potrebbe tornare in un prossimo futuro molto utile per certe beghe prevedibili, servirebbe un aiutino di qualcuno dell’opposizione. Non molto probabile, a dire la verità.

A meno che non si faccia scivolare tutto a fine anno, esattamente al 15 dicembre 2024, quando scadranno altri tre giudici costituzionali di nomina parlamentare. Prima di tutti il presidente Barbera, sostenuto dal Pd, già ministro dei Rapporti con il Parlamento nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, in passato deputato del Pci e del Pds. Poi il vicepresidente Franco Modugno, sostenuto nel 2015 dal Movimento 5 Stelle. Infine, l’altro vicepresidente Giulio Prosperetti, frutto di un accordo fra Pd, M5S e la formazione di centrodestra Area popolare (Ncd e Udc). Con quattro posti da decidere trovare un accordo politico con l’opposizione, ma anche nella stessa coalizione di governo, sarebbe di sicuro più agevole. Poco importa se per 13 mesi la Consulta sarà andata avanti a ranghi ridotti. La destra punta chiaramente a egemonizzarla, mentre la sinistra sarà costretta a subire. Magari con un contentino. Questa, detto brutalmente, è la questione che fa premio su tutte le altre considerazioni. C’è solo un piccolo particolare. Dal 15, presidente della Consulta sarà con ogni probabilità, come si fa di solito, il giudice con la maggiore anzianità. Cioè Giovanni Amoroso, magistrato proveniente dalla Cassazione. Ma i giudici saranno soltanto 11. Ovvero, il numero minimo per garantire l’operatività della Corte. C’è solo da sperare che godano tutti di ottima salute.