(di Michele Serra – repubblica.it) – Nel caso, non impossibile, che qualche italiana o italiano con facoltà di voto abbia deciso di non esercitarla e si imbatta in queste poche righe, spero che ci ripensi, e vada al suo seggio. Ogni astensione ha le sue ragioni, il cosiddetto “partito degli astenuti” ovviamente non esiste, mette insieme persone e istanze spesso opposte, si va dal deluso stanco di delusioni al menefreghista coerente, dall’altezzoso che non ritiene degno del suo voto alcun partito all’idealista refrattario ai compromessi al ribasso, eccetera. Ci sono astensioni comprensibili e anche stimabili, astensioni antipatiche e perfino spregevoli.

Io vado a votare fondamentalmente per umiltà. Con meno entusiasmo che in gioventù (anche se un minimo sindacale di entusiasmo mi rimane), ma nella convinzione immutabile che vivere nel mucchio è la nostra sorte — siamo animali sociali — e dunque ci tocca farlo senza troppe storie. Stare in disparte è un lusso alla portata di pochi: l’anacoreta, l’esploratore artico, il genio appartato, il cosmonauta (per i quali, in ogni modo, ci sarà pure una app che permette di votare).

Noi altri, date retta, non siamo al riparo da niente, né da noi stessi né dalla politica. Si va a votare per conformismo, per abitudine, per convinzione, per spirito di fazione, ma anche, ripeto, per umiltà. Perché lo fanno un sacco di sciocchi e di sagaci, un sacco di ladri e di onesti, un sacco di tirchi e di generosi, e noi apparteniamo a questo flusso casuale di persone che è la Storia. Quello che tocca agli altri, tocca anche a noi.

Perfino stucchevole ripeterlo, che la Storia siamo noi, eppure è proprio così: e lo è oggettivamente, non romanticamente. Ogni voto conta e ogni voto cambia. Ogni voto parla di ciascuno di noi.