(di Michele Serra – repubblica.it) – Si esita a definire “migranti” i giovani italiani, più di un milione negli ultimi dieci anni, che si sono trasferiti negli altri Paesi europei. Si tratta di europei, per mentalità e per cultura, che si sono spostati all’interno del loro Paese percepito, che è, appunto, l’Europa. Anche geograficamente un territorio non troppo esteso, in due ore di aereo si arriva da un capo all’altro. L’Europa è vicina.

Per la precisione, si tratta di europei meridionali che hanno trovato migliori condizioni economiche e psicologiche nell’Europa settentrionale, in società meno depresse e più dinamiche della nostra. Superando un gap culturale molto ma molto inferiore a quello che i loro nonni dovettero affrontare, nei Cinquanta e nei Sessanta del secolo scorso, salendo dal Sud al Nord dell’Italia.

Questa nuova condizione, leggibile nella semplice frase “si vive meglio qui” che echeggia in quasi tutte le interviste dei ragazzi italo-europei raccolte da Repubblica negli ultimi mesi, mette in discussione l’antica retorica, di recente riciclata dal governo detto “dei patrioti”, sull’Italia unica per bellezza, paesaggi e cibo.

Lo è, ma la misura del benessere è fatta anche di molto altro: Welfare, stipendi decenti, inclusione, diritti, servizi, scuole, asili nido, trasporti, infrastrutture, percezione quotidiana di un’evoluzione sociale e dunque di un minimo di futuro.

Anche da recenti studi e pronunciamenti (il Centro Einaudi, Bankitalia) emerge che, piuttosto che lagnarci per i “ragazzi che se ne sono andati”, bisognerebbe che diventasse un poco più europea anche l’Italia, se non vuole diventare solo l’appendice meridionale del continente dove si torna per fare le vacanze e salutare la mamma.