
(di Massimo Gramellini – corriere.it) – La scena è già indimenticabile. L’ha fermata un passante con la telecamera del telefono (a scanso di equivoci, dopo avere chiamato i soccorsi).
Ci sono tre giovani, due ragazze e un ragazzo, che si stringono in un abbraccio per tentare di opporre resistenza alla furia del fiume Natisone, nei pressi di Udine. I tre si trovavano su un isolotto quando l’acqua li ha sorpresi fino a sommergerli. L’istinto di sopravvivenza li avrà spinti a cooperare anziché a competere ed è questo, suppongo, il significato recondito che il nostro inconscio attribuisce all’immagine, in accordo con le teorie più recenti sull’evoluzione. Nella sfida sempre impari con le forze della natura, rispetto a tre Io è più probabile che si salvi un Noi.
Ogni ulteriore approfondimento della storia sembra però fatto apposta per boicottarne il senso. L’abbraccio, infatti, non ha retto alla pressione delle onde. E quei tre individui, che si erano rinsaldati in un unico nucleo a protezione di sé stessi, a un certo punto si sono ritrovati a combattere da soli per la vita, cercando invano di afferrare le corde lanciate dai pompieri.
Eppure, l’istantanea dei loro corpi fraternamente e disperatamente avvinghiati per l’ultima volta rimane impressa nella memoria in modo indelebile e tocca corde talmente irrazionali e profonde che la parola preferisce farsi in disparte. Per non disturbare.
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«L’istinto di sopravvivenza li avrà spinti a cooperare anziché a competere…»
Ma che dice? Perché mai avrebbero dovuto ‘competere’, di grazia? Nel momento in cui rischi la pelle, ti metti a prendere a ceffoni quello accanto anziché scambiar aiuto vicendevolmente? Ma che presupposto è?
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“Quei tre individui”🤦
Una gramellinata, questo articolo, che poteva davvero risparmiarci.
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