(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Era dai tempi in cui Sarri lo gridò a Mancini che nell’arena pubblica non risuonava più la parola «frocio». Persino Vannacci se n’è sempre tenuto prudentemente alla larga, ricorrendo a una serie impressionante di circonlocuzioni e di sinonimi. Papa Francesco l’avrebbe reintrodotta ai disonori delle cronache nella versione sostantivata: «frociaggine». Stava parlando ai vescovi italiani in una riunione a porte chiuse, che in Vaticano sono spesso socchiuse quanto basta a far passare qualche spiffero di malignità. È opinione comune che Bergoglio stia alla raffinatezza intellettuale del suo predecessore Ratzinger come un lottatore di wrestling a un ballerino classico, ma forse stavolta ha esagerato: non nella sostanza, perché è una non-notizia che il Pontefice si dichiari contrario alla presenza di gay nei seminari, ma nella forma, che certe volte conta anche di più.

Fortunatamente, la «frociaggine» e i suoi derivati fanno sempre più fatica a trasformarsi da pregiudizio pensato a parola pronunciata. Per riuscire a superare il muro del suono hanno bisogno di eludere i filtri creati dal buonsenso e dal buongusto, cioè dalle sensibilità che si sono andate affermando negli ultimi decenni. Il fatto che a compiere questo salto mortale sia stata proprio la voce del Papa mette addosso un po’ di sgomento e tanta malinconia. Se fosse vero, potremmo solo augurargli che Bombolo, dal Paradiso, interceda per lui.