(di Stefano Baudino – lindipendente.online) – Con l’introduzione del nuovo reato di rivolta in carcere, previsto dal nuovo pacchetto di sicurezza (la cui discussione alla Camera è prevista per il periodo immediatamente successivo alle elezioni europee), il governo ha autorizzato la creazione di un nuovo reparto di polizia carceraria, incaricato specificamente di sedare le rivolte. Con il decreto ministeriale del 14 maggio 2024 è infatti stato istituito il GIO, il Gruppo di Intervento Operativo. Il nucleo sarà articolato in un ufficio centrale e vari uffici territoriali e sarà alle dirette dipendenze del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nato ancora prima dell’introduzione formale del reato che dovrebbe occuparsi di contenere, il GIO avrà il compito di intervenire in caso di “emergenze, non altrimenti fronteggiabili in sede territoriale, che possono pregiudicare l’ordine, la sicurezza e la disciplina in ambito penitenziario, oltre che per particolari eventi critici sotto il profilo della sicurezza e per specifiche condizioni di elevato rischio nel medesimo ambito penitenziario”. Eppure, sia le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti che il sindacato della Polizia Penitenziaria sono unanimi nel ritenere che, prima di mettere mano all’inasprimento della repressione delle proteste, il governo dovrebbe agire sulla prevenzione, intervenendo sulle molteplici criticità dell’ambiente carcerario che rappresentano la causa diretta dei disagi dei detenuti. Le cui condizioni generali, come raccontano numerosi rapporti, peggiorano di anno in anno.

Nello specifico, all’interno del decreto ministeriale si legge che il GIO “opera su scala nazionale e interviene su disposizione del Capo del Dipartimento”, avendo “funzioni di pronto intervento diretto a ristabilire, in presenza di situazioni emergenziali non altrimenti gestibili in sede locale, la sicurezza, l’ordine e la disciplina penitenziaria”, nonché a “garantire altri servizi di particolare complessità operativa sul territorio nazionale”. Inoltre, su richiesta del Direttore del G.O.M. e disposizione del Capo del Dipartimento, ha la possibilità di “intervenire, nelle suddette emergenze, a supporto del Reparto operativo mobile nelle sezioni 41 bis”. Nel decreto viene scritto che il GIO, “in particolari contesti operativi” è anche chiamato a “garantire i presidi di sicurezza in occasione di eventi, anche internazionali, organizzati dall’Amministrazione penitenziaria, ovvero alla cui organizzazione è chiamata a partecipare”. Nonostante l’istituzione del GIO sia stata accolta in maniera piuttosto favorevole dal sindacato della Polizia Penitenziaria (UILPA), per bocca del suo segretario generale, Gennarino De Fazio, l’organizzazione ha lanciato un appello al governo, sostenendo che emergenze e criticità nel circuito penitenziario debbano essere “soprattutto prevenute garantendo la vivibilità e la sicurezza delle carceri, partendo da organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali sufficientemente formati e adeguati alle effettive esigenze pure di garanzia dei diritti contrattuali per gli operatori”. Senza mezzi termini, De Fazio ha infatti denunciato che “puntare sulla repressione a danno della prevenzione potrebbe aumentare le già enormi difficoltà e portare al definitivo tracollo”, facendo presente che, nella situazione attuale, i membri del GIO “verranno sottratti a organici già mancanti di 18mila unità e rischieranno di diventare come una palla di biliardo che schizza da una parte all’altra per tentare di fronteggiare le emergenze”. Il segretario generale di UILPA ha chiesto all’esecutivo di varare un decreto carceri “che con procedure d’urgenza consenta, prima di ogni altra cosa, di mettere in sicurezza l’apparato mediante congrue assunzioni straordinarie, il deflazionamento della densità detentiva e il potenziamento del servizio sanitario”.

È inoltre opportuno constatare come, a fronte di una formulazione ancora poco chiara di quella che effettivamente possa essere considerata una “rivolta carceraria”, nonché dei contorni e dei limiti di un reato che la punisca, già si stia operativamente pensando a come reprimerlo. Come le associazioni interessate alla tutela dei diritti dei detenuti e, per certi versi, la stessa polizia penitenziaria denunciano da tempo, le rivolte in carcere sono molto spesso determinate da situazioni di profondo disagio vissute dai detenuti. Un disagio che è molto difficile possa essere ridimensionato mettendo mano a un’ulteriore spinta repressiva. Per comprenderlo, è opportuno consultare i dati del 20esimo Rapporto sulle condizioni di detenzione recentemente pubblicato dall’associazione Antigone, dal titolo “Nodo alla gola”, in cui si attesta come, nel solo periodo compreso tra gennaio 2023 e marzo 2024, negli istituti penitenziari italiani si sono verificati oltre 100 suicidi, date da esperienze detentive sfociate in “situazioni di grandi marginalità”. Dalle statistiche disponibili, risulta che almeno 22 tra le oltre 100 persone che si sono suicidate avrebbero sofferto di patologie psichiatriche, che dilagano negli istituti penitenziari di tutto il Paese (1 individui su 5 tra quelli detenuti, racconta la relazione, fa regolare uso di antipsicotici, antidepressivi e stabilizzanti dell’umore). Nel frattempo, non fa che peggiorare la situazione legata al tasso di sovraffollamento carcerario, vicino a una media del 120% a livello nazionale, con picchi di oltre il 200% in due strutture lombarde. Eppure, di fronte alle scarse condizioni riservate ai detenuti italiani, negli ultimi anni in Italia si è registrato un taglio nella spesa riservata alle strutture penitenziarie. Nella legge di bilancio del 2023, si leggeva che a partire dall’anno scorso si sarebbe dovuta attuare una razionalizzazione del personale che avrebbe dovuto portare a risparmiare quasi 10 milioni.