(di Milena Gabanelli e Marta Serafini – corriere.it) – Durante una conferenza stampa, a novembre, il capo delle acquisizioni del Pentagono Bill LaPlante tenendo una mano più in alto dell’altra ha detto: «La domanda mondiale di armi è qui, l’offerta è qui». Secondo gli analisti, l’Occidente non ha obblighi di rifornimento militare così importanti dai tempi della guerra di Corea. Dieci delle più grandi società di Difesa del mondo hanno attualmente un portafoglio ordini per un valore di oltre 730 miliardi di dollari, in aumento di circa il 57% rispetto alla fine del 2017, anno in cui la domanda ha iniziato a crescere. Nonostante ciò, la produzione di armi non riesce a tenere il passo della richiesta. Ragion per cui l’Occidente, in particolare i Paesi europei che devono rinnovare il loro parco bellico, sta inviando armi a Kiev rischiando di esporsi militarmente.

I produttori americani

L’ultimo studio dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), mostra come l’invasione dell’Ucraina abbia spinto in modo drammatico l’acquisto di nuove armi in Europa (e la quantità di armi importate dai Paesi europei è raddoppiata dal 2022 rispetto ai cinque anni precedenti). I produttori statunitensi sono i principali beneficiari con un aumento delle esportazioni complessive del 17 per cento. Tuttavia, i produttori, sia statunitensi che europei, dicono che la richiesta è più alta rispetto alla capacità produttiva. Armi sempre più tecnologiche e catene di montaggio sempre più costose hanno rallentato la produzione. Inoltre le società occidentali sono private e hanno contratti da rispettare: se devono consegnare una fornitura all’esercito messicano o alla Giordania non la possono dirottare a Kiev. Prendiamo, ad esempio, Lockheed Martin e Rtx – tra i maggiori produttori di armi statunitensi, tra cui i Javelin, gli Himars e i Patriot, fondamentali nel conflitto in Ucraina. Entrambi i portavoce delle aziende hanno dichiarato che ci vorranno quattro anni per raddoppiare la produzione dei missili terra-aria Javelin e Stinger: il doppio del tempo previsto. La General Dynamics sta accelerando la produzione di colpi di artiglieria per passare dagli attuali 20 mila al mese ai 100 mila. Il direttore finanziario dell’azienda, Jason Aiken, durante la conferenza sugli utili del 25 ottobre scorso ha dichiarato «la situazione a Gaza non farà altro che esercitare una pressione al rialzo di questa domanda».

Le fabbriche europee

«Non è uno scherzo, siamo nella m…a», ha detto in un’intervista a Politico l’ex vice capo della difesa belga Marc Thys. A suo parere ci vorranno anni prima che l’Europa sia in grado di produrre le armi e munizioni necessarie sia per aiutare l’Ucraina che per rifornire i propri eserciti. Anche se le aziende europee (compresa l’italiana Leonardo) hanno visto aumentare del 10,4% i ricavi dall’inizio della guerra, gran parte della capacità produttiva, dopo la caduta del muro, è stata erosa dal calo dei bilanci della difesa e dalla graduale deindustrializzazione. Secondo Nicholas Drummond, consulente della Difesa, le aziende tedesche potevano produrre fino a 400 carri armati all’anno al culmine della Guerra Fredda, ora la capacità si è ridotta a 50. E poi l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate richiede tempi di produzione più lunghi e si alzano i costi.

Corsa al riarmo

L’amministratore delegato della svedese SaabMicael Johansson, ha affermato che «stanno lavorando duramente, per aumentare la produzione». Infatti Saab si è ampliata non solo in Svezia, ma anche in India e sta puntando sugli Usa. La norvegese Kongsberg sta costruendo una seconda fabbrica di missili d’attacco navale, con piani per quattro linee di produzione. In Francia, il ministro delle Forze Armate Sébastien Lecornu, durante una visita presso la filiale francese Nexter di Knds, ha annunciato che la produzione dei sistemi di artiglieria Caesar, che Parigi ha fornito all’Ucraina, è aumentata da due a sei al mese, con tempi di consegna dimezzati a 15 mesi. E che la Francia è stata in grado di triplicare le consegne di munizioni all’Ucraina portandole a 3.000 proiettili al mese nel gennaio 2024. Invece la Mbda ha raddoppiato la produzione di missili di difesa aerea Mistral, arrivando a 40 al mese. La tedesca Rheinmetall è in piena espansione: in ottobre, ha firmato un contratto con l’esercito tedesco per la fornitura di oltre 150 mila colpi di artiglieria aggiuntivi, tutti destinati all’Ucraina; per aumentare la produzione di munizioni ha acquisito l’azienda spagnola Expal Systems e fatto nuovi investimenti in Ungheria. Nuovi investimenti anche in Polonia per la riparazione e manutenzione dei tank Leopard. È recentissima invece la joint venture con l’industria statale della difesa Ucraina per la manutenzione e riparazione di veicoli blindati e, in parallelo, per la produzione dei carri armati più moderni attraverso il trasferimento di tecnologie tedesche. Si stanno invece definendo accordi per rendere indipendente Kiev nella produzione di munizioni e nello sviluppo della difesa aerea. Ma tutto questo, ha dichiarato ai legislatori a Oslo il produttore norvegese di munizioni Nammo, non mette ancora l’Europa nelle condizioni di aiutare l’Ucraina a difendersi senza intaccare la propria sicurezza.

Russia e Cina: le fabbriche di Stato

A Mosca l’approvvigionamento non manca: le catene di produzione sono state riprogettate per eludere le sanzioni. E non è nemmeno esclusa la complicità di qualche produttore occidentale nell’esportazione di tecnologia. Le fabbriche che producono munizioni, veicoli e attrezzature (tutte di proprietà statale) sono attive 24 ore su 24, spesso su turni obbligatori di 12 ore con doppi straordinari. Putin ha annunciato 520 mila nuovi posti di lavoro nel complesso militare-industriale, che ora impiega circa 3,5 milioni di russi, ovvero il 2,5% della popolazione. I macchinisti e i saldatori, secondo un’inchiesta del Moscow Times, ora guadagnano più di molti dirigenti e avvocati. Richard Connolly, un esperto di economia e forze armate russe presso il think tank Royal United Services Institute di Londra, l’ha definita una «economia del Kalashnikov».

Anche in Cina le grandi aziende produttrici di armi sono di proprietà statale, e come in Russia eseguono ciò che il governo chiede. Il gigantesco settore manifatturiero cinese dispone di una enorme catena di fornitura interna e di numerosi laureati formati per il settore. La spesa annuale per attrezzature militare è passata dai 26,2 miliardi di dollari del 2010, ai 63,5 miliardi di dollari del 2017. Dati più recenti non esistono, ma le quattro società cinesi nella classifica Top 25 del Sipri hanno generato 56,7 miliardi di dollari in vendite di armi nel 2019, un dato che in quell’anno mette la Cina al secondo posto dietro agli Stati Uniti nellaclassifica globale dei produttori. Tirando le fila: i numeri delle produzioni belliche occidentali sono per lo più pubblici, mentre quelli forniti da Russia e Cina di verificabile hanno davvero poco. Il dato certo è che entrambi i Paesi sono diventati rispettivamente il secondo e terzo fornitore dei Paesi africani. La sostanza è che si sta tornando alla legge del più forte. Dante direbbe: «Per me si va nell’eterno dolore, per me si va fra la perduta gente…».

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