I soldi dei privati vengono versati nella completa mancanza di limpidezza, nonostante le tante norme che sono state create per gestire il fenomeno. E così i partiti sono sempre più poveri e invece le fondazioni personali sempre più ricche

(di Sergio Rizzo – lespresso.it) – «È tutto tracciato», insisteva il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti anche quattro anni fa con Repubblica, che gli chiedeva conto dell’interesse manifestato dalla Banca d’Italia per alcune operazioni transitate attraverso la sua Fondazione Change. E poi spiegava: «Tutti i versamenti a Change superiori ai 500 euro sono regolarmente registrati alla Camera dei deputati e da quando è entrata in vigore la legge anche sul sito. È accessibile».

La pagina web della Fondazione-Comitato Change, in effetti, è accessibile. Sulla homepage c’è scritto che «il Comitato Change risulta chiuso a decorrere dal 7 giugno 2021». Incidentalmente, un anno dopo che era scattata la verifica di Bankitalia. Il presidente della Fondazione si chiama Nicola Boni ed è un avvocato, ex presidente di FuoriMuro, una società di servizi ferroviari nel porto di Genova. Ha preso il posto di un suo collega (e amico) che è fra i fondatori di Change. Il suo nome, Pietro Paolo Giampellegrini, già capo di Gabinetto di Toti e poi segretario generale della Regione: dal giugno 2019 è nel Consiglio di amministrazione di Iren, la municipalizzata quotata in Borsa di cui il Comune di Genova è il principale azionista con il 23 per cento, nonché presidente della controllata Iren Mercato. Ma anche il tesoriere di Change, Cristiano Lavaggi, è nel Consiglio di Iren spa oltre a occupare la presidenza di Iren Laboratori: dal maggio del 2021 è stato anche amministratore unico di Liguria Patrimonio, società di real estate controllata dalla Regione a guida Toti. Terza figura nel consiglio direttivo Marcella Mirafiori, stretta collaboratrice della giunta Toti in Regione. Insomma, una specie di cerchio magico.

Quanto a trasparenza sui conti, ci sono i bilanci. Dal 2016 al 2019 la Fondazione-Comitato Change ha incassato contributi da centinaia di soggetti. Ma è possibile conoscere appena quattro nomi, ovvero quelli che hanno versato i denari nei tre mesi da maggio a luglio del 2019. La Moby del gruppo Onorato (100 mila euro), la Black Oils della famiglia Costantino (50 mila), la Diaspa srl (30 mila) e la Innovatec del gruppo Waste presieduta dall’ex presidente delle Ferrovie all’epoca di Berlusconi, Elio Catania (20 mila).

Perché solo questi? La ragione è che nel 2019 è entrata in vigore una legge voluta dal Movimento Cinque Stelle allora al governo con la Lega di Matteo Salvini, battezzata «Spazzacorrotti», che ha formalmente sottoposto le fondazioni politiche ai medesimi obblighi dei partiti. Nel 2020, l’anno successivo, il Comitato Change non ha dichiarato alcun contributo, e poi è stato chiuso.

La morale? Questa storia rende lampante l’impellenza di ripensare seriamente le regole del finanziamento della politica se si vuole restituirle credibilità.

Il pasticcio comincia con la legge che nel 2014 abolisce i rimborsi elettorali. Al governo c’è Enrico Letta e la spinta è impetuosa. La sostengono tutti i partiti, convinti di frenare l’onda su cui sta planando il Movimento Cinque Stelle. I rimborsi elettorali vengono sostituiti dal 2 per mille, ma con un tetto massimo di 28,5 milioni di euro l’anno. Poi ci sono i contributi privati, certo. Ma anche per quelli c’è un giro di vite micidiale: nessuno potrà dare a un partito più di 100 mila euro l’anno. La motivazione è etica. I soldi però sono briciole, in confronto a prima. I contribuenti disposti a dare il proprio 2 per mille dell’Irpef ai partiti sono fra il 3 e il 4 per cento. E poi non sono nemmeno quelli più facoltosi. Nel 2022 dichiarano mediamente 28.553 euro, contro un reddito medio nazionale di 23.650 euro. I più ricchi sono i contribuenti di Azione di Carlo Calenda (46.588 euro di reddito medio); i più poveri quelli di Sud chiama Nord diCateno De Luca (11.500 euro). Chi contribuisce al Pd sta poco sopra i 30 mila euro, contro i 28.585 euro dei finanziatori di Fratelli d’Italia e i 25.320 dei tifosi di Matteo Salvini.

La toppa a un sistema ormai degenerato si rivela così peggiore del buco. Pochi soldi dal 2 per mille, e ancor meno dalle imprese private, per una ragione ovvia. Perché finanziare un partito, tanto più con il limite di 100 mila euro, quando si può finanziare la fondazione di un singolo politico, magari il leader di quel partito, raggiungendo direttamente il bersaglio senza sprecare inutilmente risorse? Considerando, per giunta, che fino al 2019 i finanziamenti alle fondazioni politiche erano praticamente coperti da segreto?

Il caso di Giovanni Toti dice tutto: i denari che ha raccolto la Fondazione Change in quattro anni sono pari a più di cinque volte la somma incassata da tutti i partiti nei quali Giovanni Toti ha militato dopo aver lasciato Forza Italia: da Cambiamo! a Italia al Centro, fino a Noi con l’Italia. Un milione 260.645 euro contro 236.052. Mica male.

Con la legge del 2019 tutto sarebbe dovuto cambiare. Ma è cambiato solo sulla carta. La legge ha affidato la sorveglianza delle fondazioni politiche alla commissione di Garanzia degli Statuti dei partiti istituita dopo il 2012, che però non ha le risorse per occuparsene. Una ricerca di Openpolis ha calcolato che i soggetti potenzialmente di sua competenza sono 108. E appena 8 pubblicavano di regola l’elenco dei finanziatori. Fra questi, una sola fondazione riferibile a un leader di partito: Open di Matteo Renzi, ma con la clausola che nell’elenco compariva solo chi aveva autorizzato la pubblicazione del proprio nome. I componenti della commissione avevano denunciato in una relazione fin dall’inizio l’impossibilità di operare. Senza che nessuno abbia dato loro ascolto. Basta andare nel sito della commissione per verificare come le fondazioni siano ancora un oggetto di fatto sconosciuto.

Il risultato? Se Enrico Berlinguer nella famosa intervista del 1981 con Eugenio Scalfari ammoniva che i partiti erano diventati macchine di potere e clientela, quella funzione si è trasferita ora sempre più a potentati personali. Che spesso dispongono di risorse finanziarie enormemente superiori a quelle del loro partito. È l’inverno della democrazia parlamentare. Dove tutto forse è davvero tracciabile, come avverte ancora oggi Toti per dire che tracciabilità è di per sé sinonimo di regolarità dei rapporti. Quando purtroppo non è sempre così. All’inizio degli anni Novanta i bilanci dei partiti pubblicati sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana riportavano anche allora le liste dei finanziatori privati, con accanto le cifre. Tutto tracciato, cristallino. Peccato che le inchieste di “Mani Pulite” dimostrassero come molti di loro fossero implicati in Tangentopoli. La verità? Non c’è mai stata la garanzia che chi paga un partito o un politico poi non si aspetti qualcosa in cambio.

Si dirà che le democrazie funzionano tutte così, ed è vero. Ma ci vogliono anche regole serie. Negli Stati Uniti c’è una rigida regolamentazione delle lobby che finanziano i partiti o i singoli politici. In Germania esiste una disposizione per cui chi riceve un contributo rilevante da un privato è obbligato a renderlo pubblico ai cittadini via Web con immediatezza. E non a babbo morto, come capita qui.

Mancano regole fondamentali, in una ipocrisia di fondo che non ha affatto intralciato la corruzione. Manca una legge sulle lobby. Manca una trasparenza reale. Mancano controlli seri, prima che arrivino i magistrati. Manca soprattutto, però, il coraggio dei partiti. Se ne dovrebbe discutere apertamente con i cittadini: organizzare gli stati generali del finanziamento alla politica con un dibattito pubblico aperto alle proposte di tutti, dalle singole persone alle parti sociali, perfino agli esperti, dovrebbe essere interesse di tutti i partiti. L’alternativa? Continuare a difendersi dietro foglie di fico come la tracciabilità, mentre si telefona al funzionario dallo yacht dell’amico facoltoso imprenditore che ha chiesto un favore. E finendo ai domiciliari mentre sempre più italiani disertano le urne.