(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Prima che la spediscano in un centro di rieducazione, vorrei spendere qualche parola in difesa di Ivana Semeraro, la manager che ha osato rifiutare un versamento di 40 mila euro al comitato di Giovanni Toti, come suggeritole al telefono dall’arzillo imprenditore Spinelli, «perché potrebbe sembrare corruzione». Semeraro sa benissimo che finanziare la politica alla luce del sole è un’attività legittima. Però sa altrettanto bene che si presta a un fondato sospetto, dal momento che di solito chi sovvenziona il potere non è un benefattore disinteressato, ma un creditore che si aspetta la restituzione del «prestito» sotto forma di leggi amiche e altri favori.

I pragmatici ci spiegheranno che è sempre andata così fin dai tempi di Giulio Cesare foraggiato da Crasso. Peccato che quasi nessuno abbia mai il coraggio di dirlo. Questa forma di coraggio Platone la definiva parresìa e mio padre «cunta nen bale» (dal piemontese «non raccontar bugie»). Neanche a te stesso. Chiamare le cose con il loro nome è un fatto talmente inusuale che sembra credibile solo nel mondo delle favole (il bambino di Andersen che dice «il re è nudo»). Peccato lo si pratichi così poco nella vita reale, perché tra i suoi molti pregi ha anche quello di sveltirla e semplificarla. Se Ivana Semeraro avesse usato una formula di rifiuto più ambigua, probabilmente Spinelli avrebbe provato a insistere. Invece ha chiuso subito la telefonata, a riprova del potere disarmante della sincerità.