Negli ultimi dieci anni sono cresciuti del 410 per cento gli studenti e del 112 per cento i corsi degli atenei digitali. Invece il numero dei docenti è bassissimo: appena 1 ogni 385 allievi (in quelli tradizionali sono 1 ogni 28). E non a caso il livello dell’insegnamento è più basso, dimostrano i dati

(di Chiara Sgreccia – lespresso.it) – Con la scusa di garantire il diritto allo studio il sapere finisce nelle mani dei privati, a scapito della qualità. E non si tratta di una battaglia ideologica contro l’imprenditoria privata, ma di un dato di fatto. L’hanno dimostrato molte inchieste giornalistiche, tra cui quella di Repubblica (“La fabbrica delle lauree facili”) e quella di Report (“Il pezzo di carta”), andata in onda il 28 aprile scorso. Lo ribadisce anche L’Espresso dopo aver analizzato dati, documenti e accadimenti che hanno caratterizzato l’ascesa delle università telematiche in Italia, negli ultimi dieci anni. Oltre alle relazioni dei loro proprietari con la politica.
Dall’anno accademico 2011/12 al 2021/22 il numero totale degli iscritti alle università nel nostro Paese è cresciuto di più del 10 per cento, di 182.473 unità. Ma, mentre nelle università statali tradizionali il numero di studenti è diminuito di 19 mila unità, a beneficiare della crescita sono stati soprattutto gli atenei telematici: le immatricolazioni sono cresciute del 410 per cento negli anni della pandemia, un boom. Oggi gli iscritti sono 224 mila, nel 2011/12 erano 44 mila.
Come si capisce dall’ultimo report redatto dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), a crescere è stata anche l’offerta formativa delle università online che in dieci anni è più che raddoppiata, principalmente nelle aree economica, giuridica, sociale e per le discipline Stem. Così, se subito dopo il Covid gli atenei tradizionali si sono impegnati per fare tornare la formazione in presenza – convinti, come ha ribadito il rettore dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, Giovanni Molari, che l’università non possa essere «solo didattica, ma sia fatta di aule, laboratori, corsie degli ospedali. E poi la socialità nelle biblioteche e nei luoghi di svago è un valore che caratterizza un ateneo» – le università telematiche hanno fatto incetta di iscritti.
Oggi l’11,8 per cento degli universitari frequenta uno degli undici atenei riconosciuti dal ministero dell’Università e della Ricerca che erogano corsi in modalità e-learning, con l’obbligo di svolgere in presenza solo gli esami di profitto e la discussione della tesi. Tra queste, l’università telematica eCampus di Francesco Polidori, che, dopo avere lasciato ai figli i resti di Cepu, l’ha fondata e vista riconoscere dal Mur nel 2006, nonostante il parere negativo dell’allora organo di valutazione del sistema universitario. La “Niccolò Cusano”, il cui amministratore delegato è il sindaco di Terni Stefano Bandecchi, conosciuto per le sue generose elargizioni nei confronti della politica – da Forza Italia a Impegno Civico e al suo partito Alternativa popolare – e per essere stato indagato per evasione fiscale. E gli atenei telematici Pegaso, Universitas Mercatorum, San Raffaele che fanno parte della multinazionale del sapere Multiversity, il primo gruppo in Italia e il secondo in Europa nel settore dell’istruzione e della formazione, controllato dal fondo finanziario britannico Cvc.
A non aumentare o a non crescere abbastanza, però, negli ultimi dieci anni sono stati i docenti in servizio nelle università telematiche: mentre negli atenei con didattica in presenza il rapporto studenti-professori è di 1 a 28 (comunque poco rispetto alla media europea di 1 a 14,3), per gli atenei online il rapporto è di 1 a 385. Uno squilibro enorme che non si riflette solo sulla qualità dell’insegnamento, ma anche sulla possibilità per i docenti di seguire gli studenti e interagire con loro.
Lo si legge nel rapporto “Il piano inclinato” della Flc Cgil, preoccupata per la tenuta del sistema universitario italiano, sempre più subordinato alle logiche del profitto che rischiano di limitare la libertà di insegnamento e di ricerca sancita dall’articolo 33 della Costituzione. «Oggi c’è un salto di qualità nelle dimensioni, nella possibilità di costituire università profit, nel trasferimento delle loro logiche distorte agli atenei in presenza. Il problema è la mancanza di controllo che sta producendo disastri. C’è inoltre un dumping al ribasso nelle condizioni di lavoro, nella precarietà di chi lavora nelle telematiche, che non è accettabile. Non si possono chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò», chiarisce Gianna Fracassi, segretaria della Flc Cgil.
Che la qualità del servizio offerto dalle università telematiche sia inferiore rispetto a quella degli atenei che organizzano la formazione in presenza lo testimoniano gli studenti che le hanno frequentate, i docenti che hanno tenuto corsi e i giudizi espressi dall’Anvur: solo un ateneo telematico ha ottenuto un giudizio di accreditamento periodico «pienamente soddisfacente», la maggioranza ha avuto un giudizio «soddisfacente» e due atenei hanno ottenuto un giudizio «condizionato», cioè una valutazione che per diventare sufficiente richiede l’adempimento di alcune condizioni nel periodo successivo. Decisamente più alti i risultati ottenuti dalle 80 università tradizionali. «Leggendo il rapporto si vede che i giudizi ricevuti dalle telematiche sono più bassi. Per definire la qualità degli atenei ci ispiriamo alle regole e alle linee guida europee; attraverso queste verifichiamo l’offerta formativa, la didattica, la ricerca, le policy di gestione, la sostenibilità economico-finanziaria. Si tratta di un processo di valutazione articolato», spiega a L’Espresso Antonio Felice Uricchio, presidente dell’Anvur. Da quando l’Agenzia esiste, nessuna nuova università telematica è stata abilitata, sebbene le richieste arrivate siano numerose.
Ma c’è un problema che mina l’esistenza anche delle università telematiche già riconosciute dal Mur. Il fatto che in base al decreto 1154 del 2021, emanato dall’allora ministra Maria Cristina Messa, entro la fine del 2024 il rapporto tra il numero di docenti e di studenti degli atenei telematici dovrà essere equiparato a quello delle tradizionali. Un adeguamento che la Lega ha provato a rimandare di un anno, con un emendamento al Milleproroghe a prima firma di Edoardo Ziello. Una mossa sospetta, visti i finanziamenti che il partito di Matteo Salvini ha ricevuto da alcuni di questi atenei: ad esempio, le migliaia di euro da eCampus per le Politiche. Il tentativo leghista è però fallito, a causa dell’opposizione della ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, che in cambio ha istituito un tavolo di lavoro «per garantire una qualità dell’offerta formativa a tutti e per tutti». Lo scorso 18 aprile si è formato anche un intergruppo parlamentare dedicato alle università telematiche: «Ci concentreremo sull’approfondimento del modello in altri Paesi per mettere a punto proposte capaci di garantire il diritto agli studi superiori a tutte quelle famiglie che non possono permettersi di sostenere studi fuorisede», ha dichiarato il presidente dell’intergruppo, cioè Ziello.
Senza pensare che garantire il diritto allo studio significa offrire servizi agli studenti, come trasporti e alloggi a prezzi accessibili, e «non dipende dallo strumento con cui si eroga l’attività formativa», ha ricordato Uricchio. Garantire il diritto allo studio non può tradursi nel costringere gli studenti con un Isee basso a frequentare i corsi online perché senza possibilità di scegliere. E le università telematiche non possono essere la soluzione facile per aumentare il numero dei laureati nel Paese, permettendo allo Stato di risparmiare e lasciando a privati il business sulle spalle degli studenti.
Buongiorno,
grande problema con mille sfaccettature.
Siccome è qualcosa che produce, se lo produce, risultato dopo diversi anni la sola cosa possibile “col treno in corsa” è migliorare l’esistente che è già un eufemismo.
A cosa serve studiare?
A cosa deve servire studiare?
Io, che non ho titoli per farlo, non butterei dalla finestra il complesso di ciò che si può ottenere tramite il digitale nel senso ampio e non solo come pdf video e “cotillons”.
Perchè oltre ad abbattere alcuni costi che proibiscono i meno abbienti direttamente, consentono una potenziale accessibilità che non sarebbe possibile con l’organizzazione di 10 anni fa.
Obbligherei ad una verifica “in presenza” molto severa, non repressiva, ma funzionale.
Un certo numero di ore DEVE essere “in presenza” in una università pubblica che è non solo costo ma BENE comune.
Abolirei qualsiasi forma di Università privata che è immediatamente asservita in senso “genetico” ad interessi obbligatoriamente economici esterni.
Se, come in passato, qualche “mecenate” volesse contribuire all’allargamento dell’area generale che ha come scopo primo la diffusione della conoscenza, della cognizione di causa individuale, può farlo e avere il suo riconoscimento “onorifico”, magari anche economico in senso “detrattivo”, cioè meno tasse per più aiuto alla scuola pubblica.
Che significa, per effetto “domino” positivo, più società che tenta di far vivere più felicemente le persone.
Ma quante persone in Italia si chiedono questo?
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OK per le università telematiche, ma l’esame lo vai a fare nelle pubbliche con materie e programmi simili o uguali.
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La questione è mal posta: il problema esiste da prima delle università telematiche. In Italia sono sempre esistiti gli atenei in cui anche i somari potevano laurearsi in tempi ragionevoli. E se proprio eri un trota, al limite potevi farti riconoscere una laurea in Albania.
Il percorso di studi comporta anche una scelta etica individuale, per cui non me la sentirei di sparare a zero su chi, per mille motivi, ha scelto un percorso di studi telematico e chi studia in presenza.
Da noi la meritocrazia praticamente non esiste, questo è il problema vero. I somari e i raccomandati ci sono a tutti i livelli, altrimenti un laureato ad minchiam non passerebbe i concorsi e non durerebbe un mese all’interno di un’azienda dove sono richieste le qualifiche corrispondenti al titolo.
Va abolito questo malcostume, prima di riformare il sistema universitario.
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Concordo in linea di massima.
Riferirsi alla dicotomia pubblico/privato è riduttivo.
In Italia ci son delle ottime università private; si pensi alla Cattolica di Milano o alla Bocconi.
Certo, finanziariamente parlando, non sono proprio alla portata di tutti; resta il fatto che sono delle ottime università private; nonchè prestigiose.
Non metto neanche in dubbio che tra gli studenti delle università telematiche vi sino persone realmente intenzionate a formarsi così come non è da escludere che tanti le ritengano dei “laureifici”.
Il punto è proprio questo; nel loro complesso le università telematiche danno proprio questa impressione cioè di essere dei posti dove ottenere in modo relativamente facile un “pezzo di carta”
Del resto basta guardare il cognato d’Italia che si è laureato in giurisprudenza all’università ora gestita da Bandecchi.
Da lui non mi farei difendere neanche in una disputa su una partita a briscola.
Quad affiorano reputazioni di questo genere è poi difficile rifarsi un’immagine positiva.
La moneta cattiva scaccia via la moneta buona.
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Buongiorno,
leggendo tutti i commenti mi azzardo a dire che in molti differenti la pensiamo allo stesso modo.
Università solo pubblica, abolizione delle private.
Utilizzo della telematica non come basilare ma ausiliare.
Se l’università esiste SOLO per il titolo è comunque non esaustiva.
Ancor più se il titolo è “Tarocco” perchè preso in un laurificio.
Però abolendo la università come privata si abolisce anche il titolo “tarocco”.
Il problema sorge quando una materia è specializzazione POST laurea.
Ingegneria aerospaziale.
Il flusso richiesto non può essere a sè stante ed è economicamente sconveniente perchè è di per sè limitato, pochi docenti, ridotte risorse per lo studio materiale, che una nazione può non sopportare rispetto ad un’azienda che fa quasi solo quello oppure più “mirante”.
E’ un discorso lungo ma è bene parlarne.
Anche se prima dell’anno 5000 non ne vedremo effetti pratici.
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