Le sigle devono riscoprire il valore politico della lotta sul salario

(MASSIMO CACCIARI – lastampa.it) – Primo Maggio, festa del Lavoro – del Lavoro in generale, del Lavoro in astratto, del Lavoro che ogni individuo, anche in perfetta solitudine, anche come Robinson nella sua isoletta, è in grado di svolgere? Questo sta diventando lo spirito della festa – ed è uno spirito che ne tradisce storia e significato. Così, d’altronde, avviene ormai per tutte le nostre feste: vaghissime celebrazioni in cui dovremmo ritrovarci appassionatamente uniti, occasioni di “universale” retorica. Il 1° maggio non è la festa del Dio Lavoro, ma del sindacato dei lavoratori, neppure della classe dei lavoratori, ma di questi in quanto giunti a organizzarsi in modo tale da dare contenuto strategico alle proprie richieste. Il 1° maggio fa memoria dell’evento storico in cui la massa della forza-lavoro ha preso coscienza del suo essere classe e si è costituita come movimento sindacale e politico. Ciò ha segnato la storia mondiale a partire dalla metà del XIX secolo. Ma ora? Intorno a questa domanda dovrebbe svolgersi la festa del 1° maggio per non ridursi a cortei di pensionati e giovani in concerto.
La forza-lavoro attuale non è più sindacalizzabile a livello di massa? Trasformato radicalmente il processo produttivo che la concentrava nei grandi “silos” della manifattura moderna è venuta meno anche la possibilità della sua organizzazione sindacale e politica? L’attuale sistema sociale di produzione, ormai globalizzato, mette tutti al lavoro – chiunque ne partecipi anche agli estremi margini ne costituisce un fattore. Ma la sua funzione valorizzante è progredita in modo inversamente proporzionale alla sua forza sindacale e rappresentatività politica. Al capitalismo globalizzato è riuscita un’autentica rivoluzione che sembra aver scardinato la possibilità stessa di una rappresentanza sindacale unitaria degli interessi del lavoro dipendente. Nei Paesi dove ancora sono centrali le grandi piattaforme manifatturiere ci pensano regimi più o meno autoritari, come già accaduto in tanti grandi Stati dell’Occidente nella prima metà dell’altro secolo, a eliminare tale possibilità – ma da noi, nella vecchia Europa?
Da noi l’unità del processo che unifica ogni attività umana, e lo stesso consumo, al fine della produzione di ricchezza, si è realizzata organizzando il lavoro secondo ordini e gerarchie che tendono a renderne irriconoscibili gli interessi comuni. L’ideologia dominante considera, nella sostanza, come sola forma di lavoro produttivo quella del cervello sociale che “crea” continua innovazione e di coloro che ne governano sotto il profilo amministrativo e finanziario lo sviluppo tecnico-produttivo, fino alla stessa produzione del consumo. È in questo settore che si è andata sempre più concentrando non solo la ricchezza prodotta, ma anche la potenza politica. Nell’antico capitalismo del laissez-faire esisteva una centralità economica e politica del lavoro salariato dipendente, che oggi sembra liquidata. Il capitalismo oligopolistico contemporaneo ha rivoluzionato i precedenti rapporti socio-politici relegando il lavoro dipendente non “creativo” a funzioni sussidiarie, se non superflue. La rivoluzione tecnologica tende con ogni evidenza non solo a “sostituire” con “macchine intelligenti” lavori tradizionali meccanico-ripetitivi, ma impieghi un tempo propri di un lavoro anche altamente qualificato. Si può affermare che tale fosse la tendenza immanente al sistema, ma certo è che oggi, manifestandosi in tutto il suo straordinario potere, essa limita in maniera drastica la forza rappresentativa e l’efficacia d’azione del movimento sindacale.
Mentre il lavoro tipicamente operaio viene massicciamente “sostituito” dal sistema delle macchine, il lavoro medio qualificato e terziario un tempo occupazione tipica del ceto medio va “proletarizzandosi” con conseguenze etico-politiche formidabili. Ampie fasce dello stesso lavoro intellettuale subiranno l’impatto della concorrenza esercitata dalla intelligenza artificiale. Residuano masse di lavoro precario a bassissimo reddito dedite a micro-servizi alla persona e alle funzioni di controllo dilagate grazie a terrorismo e virus. Il sistema oligopolistico globale si scherma dietro a tali funzioni, nelle quali il lavoro dipendente perde per definizione ogni possibile autonomia di movimento.
L’ideologia che ha prevalso difronte a questi davvero epocali processi è stata di resa. Ci si arrende sia sostenendo luddistiche forme di resistenza a essi, che farneticando di meravigliose sorti e progressive, per cui le occupazioni oggi a rischio verrebbero automaticamente sostituite – basta dar loro un po’di tempo – da altre di maggior pregio e valore. Non è stato così nel passaggio tra agricoltura e industria e ancora, per una certa fase, tra industria e terziario? Non sarà più così. Composizione del capitale e del lavoro sono anni luce diverse. Mancano gli agenti sindacali e politici che permettevano una ridistribuzione del reddito a favore del lavoro. La ricchezza prodotta si concentra nelle classi “creative” e con essa lo stesso potere politico. Minaccia di disoccupazione, debito e i mezzi sempre più potenti per influire sui comportanti delle masse, fin sulla loro stessa immaginazione, controllano oggi il multiverso senza centro del lavoro sociale.
È realisticamente possibile una ricostruzione del potere del sindacato e con questa un 1° maggio che non si riduca a giornata della memoria? Sarà una lunga marcia – la storia degli ultimi decenni ha rappresentato un’autentica rivoluzione, alla quale non si potrà corrispondere con qualche slogan. Anzitutto, dovunque esistano forme di lavoro dipendente produttivo sarà necessario riprendere con forza la tematica salariale. Vi è disuguaglianza intollerabile nella distribuzione del reddito, ma ancor più inammissibile ingiustizia nel rapporto tra reddito e gravità del lavoro erogato. Il sindacato deve riscoprire in pieno il valore politico della lotta sul salario. Accanto a questa, e con valore strategico ancora più forte, il sindacato è chiamato ad aprire la prospettiva di un vero salario sociale, eticamente e culturalmente riconosciuto nella sua storica necessità, privo di ogni carattere assistenziale. L’attuale ciclo capitalistico produce ricchezza eliminando lavoro non più necessario. Ne può creare altro? Certo che sì – quello che ognuno di noi sarà in grado di crearsi, libero da ogni dipendenza, autonomamente. Il sindacato se vorrà sopravvivere dovrà sempre più mirare a sostenere e organizzare tutte le forme di auto-propulsività dal basso, come le ha chiamate De Rita – a garantire a esse i mezzi per svilupparsi. Lotta salariale, reddito di cittadinanza, ridistribuzione del reddito a sostegno di questi obiettivi, contro ogni spesa controllistico-burocratico-ministeriale, contro armi inutili di ogni tipo. Una bella professione quella del sindacato futuro. Possibile anche?
Più che un articolo sembra un’Ode al fù Primo Maggio: comprendo la paura degli intellettuali che ormai vedono marginalizzato anche il loro lavoro, sostituiti e sostituibili dalla IA che opera e produrrà movimenti d’opinione più funzionali alla narrativa….
Cacciari elude però una questione fondativa del mondo che verrà: il lavoro sta tornando allo schiavismo; non tutto possono e potranno le macchine, e forse, prima di estinguersi, gli intellettuali dovrebbero fare un sorvolo delle campagne, delle miniere, dei laboratori manifatturieri, dei cantieri, delle immense fabbriche farmaceutiche e petrolchimiche, eppure di quelle tessili….senza dimenticare l’asset economico principale dell’Occidente tossico-dipendente e farmaco-dipendente in mano ai cartelli. E visto che il mondo è globalizzato, i lavoratori dovrebbero passare dalla consapevolezza di essere forza produttiva/consumistica a quella di essere uomini e donne liberi e pari.
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Sono d’accordo con il commento precedente. In quanto a Cacciare mi sorprende che scambia “La festa dei lavoratori” con “la festa del lavoro”, anche se poi nell’articolo parla dei lavoratori
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scusate, è “Cacciari” e non Cacciare
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forse i sindacati non assolvono più al loro compito primario , sono élite e lobby
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