(di Michele Serra – repubblica.it) – Leggendo delle recenti vicende pugliesi sulla compravendita elettorale, preoccupa la stagnazione del prezzo: cinquanta euro per un voto, la stessa cifretta che ricorre da almeno vent’anni, nemmeno il ricarico dell’inflazione, o un piccolo extra prelevato dai contributi europei, che qui da noi vengono usati per finanziare un po’ di tutto. Per dirla con Cetto Laqualunque, “non sono tariffe da paese civile!”. Ma li vogliamo dare, per un voto, almeno cento euro?

Si capisce che il compratore lesini, lui acquista i voti “a pacchetti” (l’unità di misura della tangente è la mazzetta, l’unità di misura del voto è il pacchetto), deve pagarne centinaia per volta, mica può rovinarsi. Ma il venditore deve tenere da conto i propri interessi, ne va della sua credibilità: quando è che si decide a rivalutare il proprio voto? Che figura da miserabile si fa, svendendosi per così poco?

Possibile che nessuno abbia ancora avuto l’idea di organizzare e difendere questi elettori sottopagati, e in evidente crisi di autostima, intanto mettendo in piedi un supporto psicologico; e poi convincendoli a organizzare non dico un sindacato, ma perlomeno un patronato? Così che quando il consigliere regionale o il portaborse bussa alla porta non apre direttamente l’elettore, ma la suocera, o il cognato, che avverte: “per meno di cento euro, Nicola nemmeno si alza dal divano”.

Per non dire dell’esigenza di fare uscire dal nero questo fiorente mercato. Dichiarare onestamente il traffico dei voti avrebbe una benefica ricaduta anche sul Pil. Si potrebbero anche quotare in Borsa i pacchetti più dinamici e appetibili.