La riforma costituzionale voluta dal governo Meloni ha la scorza ma non la sostanza della democrazia. Ogni elezione diretta è uno scontro a due: così il menu per gli elettori è assai povero

(di Gustavo Zagrebelsky – repubblica.it) – Il gran ballo della riforma costituzionale si è riaperto. Nessun indovino ne conosce la fine. Alla luce sia della teoria che della esperienza, qualche cosa, però, si può dire.
La prima è che non si tratta affatto solo di aggiornare la Costituzione, come si dice candidamente. L’oggetto delle Costituzioni è il potere legale: lo creano, lo suddividono o lo concentrano, lo distribuiscono. All’inizio d’un ciclo storico, scrivere la Costituzione è relativamente facile perché le decisioni da prendere sono in astratto: non si sa prevedere chi ne approfitterà. Le discussioni, nelle fasi nascenti, si aprono alle grandi visioni del buongoverno, sfiorando spesso l’utopia. La riforma in corso d’opera è cosa diversa e più difficile. Fare è più facile che rifare. Come tra i vasi comunicanti, c’è chi guadagna e chi simmetricamente perde. Non può che essere così. La somma non può essere positiva per tutti. Il totale è zero: se si aggiunge a uno si deve togliere a un altro e viceversa. Tra tutte le controversie politiche, quella che ha come oggetto la costituzione e la sua riforma è la più devastante per la pacifica convivenza. I costituzionalisti possono discettare fin che vogliono in astratto sulla migliore delle Costituzioni possibili ma, alla fine, non a loro tocca fare le riforme, ma tocca alle forze politiche, e queste operano non per scrivere libri sul diritto costituzionale più bello del mondo. La posta è il gioco del potere al massimo livello, non “in teoria” ma “in pratica”.

La logica guadagno-perdita che muove le riforme costituzionali, tuttavia, sembra estranea al caso dell’elezione diretta del capo del governo. Sembra che ci sia solo da guadagnare. Davvero? Si dice: tutto resta sostanzialmente uguale; si aggiunge e non si toglie nulla, l’elezione diretta al posto delle alchimie tra partiti, correnti di partito, lobby, interessi spesso nascosti e indicibili. In quanto si sia orientati alla democrazia e al suo valore, non ci sarebbe ragione per rifiutare un tale dono: accettarlo si deve di buon grado, anzi con gratitudine. Si voterebbe una volta in più e direttamente, per eleggere non un deputato qualunque ma addirittura il capo del governo: mica una cosa da poco, una pratica rapida ed efficiente.
Sembra un dono, ma è un raggiro. La riforma chiamata “premierato” con l’appropriazione indebita di una tradizione secolare nata altrove a noi estranea, secondo i testi in circolazione darebbe sì il potere agli elettori di votare per chi preferiscono. Ma, a quale prezzo? Qualunque elezione diretta si risolve necessariamente in una mobilitazione e in uno scontro a due, da una parte o dall’altra. Così, il menu presentato agli elettori è assai povero e molti potrebbero non trovarvi qualcosa di gradito. Vale la pena scambiare il diritto di partecipazione democratica, cioè il pluralismo, per un piatto di lenticchie già bell’e pronto e pre-cucinato dagli stessi cuochi di cui si dice di voler limitare l’influenza per aumentare quella degli elettori? Vale la pena? Voi riformatori, pensate davvero di rianimare così la partecipazione dei cittadini e di combattere l’astensionismo di chi preferisce il digiuno?

Inoltre, l’elezione dei governanti, secondo la democrazia rappresentativa, deve per l’appunto farne dei “rappresentanti” a seconda della misura del consenso elettorale ottenuto. Ognuno ha il suo compito da svolgere, maggioranza e opposizione. L’elezione diretta del capo è una cosa completamente diversa: è una specie di mobilitazione per la vittoria. Se si credesse che questa sia libertà, vorrebbe dire che si è pronti a credere qualunque cosa. Subito dopo la spinta vittoriosa, infatti, si ritornerebbe a non contare più niente, fino alla prossima occasione. L’eletto potrebbe dirsi “rappresentante” degli elettori solo nel momento in cui lo si proclamasse il “vincitore”, ma subito dopo coloro che dissentono si sentirebbero dire (come già ora qualche ignaro delle parole ogni tanto dice) “io ho vinto, non tu: fattene una ragione”. Ma questo non è il linguaggio della democrazia, una forma di governo in cui tutti e in ogni momento hanno il diritto di “non farsene una ragione”. In una parola: la democrazia non si può esaurire in un solo momento, passato il quale ci si consegna in mano a colui che ha mostrato la sua forza maggiore. In democrazia, il più forte non ha necessariamente ragione, a meno di non credere alla legge di Trasimaco, l’antagonista di Socrate: giusto è l’interesse del più forte.
L’essenza della riforma non è tanto l’elezione diretta, quanto la divisione: “Vogliamo un sistema che – si dice -ci faccia conoscere il vincitore la sera stessa delle elezioni”. Questo è un linguaggio bellico. Vittoria o sconfitta. Ogni sistema di governo deve valutarsi nelle condizioni date. Guardiamo come si svolge la lotta politica (si dice così: lotta) nel nostro Paese e in questo momento: propaganda sfacciata, fake news, intimidazioni e ricatti, dossieraggi, linguaggio d’odio, rimbambimenti. È pericoloso dividere i cittadini in due e aizzarne l’una parte contro l’altra. Chi penserebbe ancora alle elezioni come una festa della dignità dei cittadini, alla quale si partecipa indossando l’abito buono?
La democrazia è un regime difficile e faticoso, che non va per le spicce. Bisogna – dicono – farle un’iniezione di “governabilità”: designazione del vincitore, che possa fare quel che vuole senza fastidiosi contrappesi e controlli. Se li si mantiene sulla carta, almeno li si allinei nella pratica. Un bel premio di maggioranza gli consentirà di eleggere da solo il “suo” presidente della Repubblica, i “suoi” giudici costituzionali, i “suoi” consiglieri del Csm. Nella parola è nascosto il raggiro: governabile è colui che si lascia governare docilmente, che è adatto a essere governato. Non è colui che governa. Gli aggettivi in -abile, – ibile, ecc., hanno tutti un significato passivo. Una persona amabile è degna d’essere amata, ma non è detto che ami; un libro è consultabile in biblioteca quando può essere preso in lettura, ma non è detto che ci vada; una mandria è governabile quando ubbidisce al suo pastore. Il popolo è governabile quando è mansueto; è ingovernabile quando pretende di governarsi da sé. Le parole, spesso, aprono brecce da cui si scorge quel che c’è dietro. Quella parola fu lanciata in uno studio commissionato dalla cosiddetta Commissione Trilaterale, un think tank che, nel 1975, si diede da fare per elaborare proposte per medicare le debolezze della democrazia nell’era della globalizzazione. Fece strada. Numerose analisi politologiche, per lo più legate al mondo della finanza internazionale, fecero propria quella parola. Da noi iniziò a essere il motto dei riformatori della Costituzione, a partire dagli anni ‘80. Si trattava di questo: rafforzare gli esecutivi; indebolire le assemblee elettive; ridurre l’azione dei sindacati alla contrattazione aziendale; alleggerire i diritti e le protezioni sociali; ridimensionare i controlli costituzionali e giurisdizionali. In breve: potenziare l’autorità al vertice e indebolire la partecipazione politica alla base. Il bisogno di governabilità deriverebbe dal “sovraccarico”, altra parola-chiave: le società che “amano la libertà” rivolgono troppe domande ai loro governi i quali non possono esaurirle tutte. Bisogna “alleggerire”. Qualcuno potrebbe pensare il contrario, cioè che di “domande” ce ne siano troppo poche o, almeno, che ci debba essere spazio per altre, che non vengono nemmeno prese in considerazione. Ma questo è senso comune: bisogna limitare le pretese. Quali? Inevitabilmente quelle di chi, pur avendo più bisogni, ha meno potere, i deboli. La “governabilità” è l’ultima risorsa dell’ineguaglianza.
Tutto ciò è “governabilità”. Ha a che fare con l’elezione diretta del capo del governo? Come non vedere la parentela? Come non vedere il rovesciamento dalla democrazia partecipativa e dai suoi presupposti, a favore di un sistema di autocrazia elettiva illiberale che della democrazia ha la scorza, ma non la sostanza. Proprio questo, di questi tempi, piace a qualcuno e c’è poco da dirgli. Ma, coloro ai quali questo non piace affatto hanno molti motivi per opporsi.
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“Il premierato che ci trasforma in un’autocrazia illiberale”.
Se la maggioranza degli utenti di Infosannio avesse il dono della coerenza (viste le prese di posizione circa la Federazione Russa) dovrebbe inneggiare a questa riforma costituzionale.
Io invece (sporco cittadino dell’occidente in piena decadenza) sono assolutamente contrario e sottoscrivo buona parte dell’articolo di Zagrebelsky.
Io, come già scritto, sono per il doppio turno alla francese. Ma essendoci in Italia una sinistra equivalente al nulla, non mi faccio da anni alcuna illusione.
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Ps
Per “maggioranza degli utenti di Infosannio” intendo i soggetti alla @seve, che postava fino a poco tempo fa le bandierine della Federazione Russa come la domenica a Roma i tifosi sventolano quelle giallorosse o biancoazzurre. Lo stesso soggetto che poi mette i like a alla vignetta con la Meloni sovrastata da Mussolini. Misteri del “cervello” umano.
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sul DOPPIO TURNO ALLA FRANCESE o come l’elezione del sindaco sono d’accordo col tuo unico neurone
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E allora viva IL PROPORZIONALE così anche il tuo amico Cartano De Luca potrà avere la possibilità di presentarsi e raccogliere qualche voto. W la democrazia!
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vedi che non sai leggere?
ho scritto che sono d’accordo col DOPPIO TURNO
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