IL LIBRO DI PASQUALE TRIDICO – ” Il ‘trilemma’ europeo comporta la riduzione del costo del lavoro: cinque proposte alternative”

(DI PASQUALE TRIDICO – ilfattoquotidiano.it) – Il modello dell’Unione economica e monetaria (Uem) dell’Ue, definito dal Trattato di Maastricht nel 1992, è oggi incompleto. Esso è caratterizzato da uno spazio economico dell’euro con cambi fissi, mobilità di capitali, disciplina di bilancio e politica monetaria indipendente. L’unica politica che uno Stato nazionale può liberamente praticare è quella del lavoro. Questo spiega anche come mai, nei tre decenni passati, tutti i governi che si sono succeduti in Italia hanno quasi sempre e soltanto agito sulle politiche del lavoro per ottenere vantaggi competitivi: riforme a costo zero per lo Stato, pagate però al prezzo di maggiore precarietà e salari bassi.

Nella Uem si definisce chiaramente un trilemma, di difficile soluzione, sui seguenti tre pilastri: 1) cambi fissi; 2) deflazione della domanda interna/politiche fiscali espansive; 3) svalutazione interna del lavoro/progressivi aumenti di salario e occupazione.

In caso di crisi, i cambi fissi possono rendere necessaria l’adozione di una politica fiscale restrittiva, come quella di austerità attuata in seguito alla crisi finanziaria del 2008- 2009. Questo perché tale politica porta a una riduzione della domanda di importazioni e migliora la bilancia commerciale. Genera inoltre disoccupazione, un abbassamento dei salari e un aumento di competitività. Dal punto di vista delle istituzioni di Bruxelles, tale strategia risulta razionale e appropriata per migliorare la competitività e uscire dalla crisi, anche se con un livello di ricchezza inferiore. In altre parole, per aumentare la competitività si va nella direzione della svalutazione interna del lavoro, ovvero verso le cosiddette politiche strutturali di flessibilità del lavoro e di tagli e deflazione salariale. Ammesso e non concesso che l’Ue permetta politiche fiscali espansive, con cambi fissi e mobilità di capitali, nell’Europa del Sud avremmo solo ulteriori deficit nella bilancia commerciale a causa dell’aumento delle importazioni e conseguenti ricadute negative sulla domanda aggregata e sull’occupazione. D’altra parte, in caso di svalutazione interna del lavoro si ottiene un’ulteriore compressione della domanda aggregata e recessione, con un peggioramento del rapporto debito-Pil e un aumento delle diseguaglianze: ciò cui abbiamo assistito tra il 2009 e il 2014. Il Quantitative easing, voluto con forza da Mario Draghi, ha salvato la moneta unica, ma non ha cambiato le fondamentali criticità del trilemma.

La riduzione dei costi unitari del lavoro è possibile o con crescenti aumenti di competitività e – quindi attraverso progresso tecnico e investimenti capital intensive che producono un divario sempre maggiore tra produttività del lavoro e salari monetari – oppure con tagli salariali. Non tutti i Paesi possono e riescono a essere tanto competitivi da abbassare i costi unitari del lavoro, soprattutto se non si possono perseguire politiche espansive, sostegno alla domanda aggregata e politiche pubbliche di innovazione. Rimangono quindi i tagli salariali, che però approfondirebbero la crisi in quanto costituiscono un’ulteriore spinta recessiva per l’economia.

Il trilemma (cambi fissi, deflazione della domanda interna, svalutazione interna del lavoro) può essere risolto con strumenti centralizzati come il reddito di cittadinanza europeo, ovvero con un meccanismo automatico di stabilizzazione, centralmente finanziato da un bilancio europeo a cui partecipano gli Stati membri sulla base del rispettivo peso economico. Un bilancio centrale grazie a cui attuare politiche espansive nei Paesi colpiti da crisi, caratterizzati da elevata disoccupazione e povertà, può prevenire ulteriori disavanzi e una conseguente compressione della domanda interna. Soluzioni teoriche quali la mobilità del lavoro o i tagli salariali sono da escludere in quanto non risolutivi o migliorativi per il lavoro stesso, soprattutto per ciò che concerne gli Stati membri colpiti dalla crisi.

Si possono tracciare
dei suggerimenti di politica economica dell’Ue partendo dagli insegnamenti che alcuni studiosi hanno avanzato negli ultimi anni. Mariana Mazzucato ha proposto un modello di Stato imprenditore/innovatore, che sia il motore principale nella transizione verso un’economia green e digitale. Uno Stato che investa direttamente nelle politiche industriali, nella ricerca, in un’agenzia pubblica europea dei farmaci e dei vaccini, per evitare di trovarsi impreparati di fronte alle emergenze sanitarie, come è successo durante la pandemia di Covid-19. Tale ruolo potrebbe e dovrebbe essere ricoperto dall’Ue, similmente a ciò che gli Usa stanno già facendo attraverso l’Inflation Reduction Act, firmato dal presidente Biden ad agosto 2022 e dal valore di circa 1 trilione di dollari, che rappresenta il più vasto programma di investimenti pubblici della storia americana per la transizione ecologica e digitale. Un programma di aiuti e politiche industriali che purtroppo oggi non sarebbe nemmeno permesso dalle regole di concorrenza europee contro gli aiuti di Stato e di cui tuttavia l’Ue avrebbe disperatamente bisogno. Thomas Piketty ha suggerito l’introduzione di una global tax, o quantomeno una common tax europea, oltre che di un salario minimo, una proposta, allo stato attuale, di difficile realizzazione. Molti Stati membri si fanno concorrenza nella ricerca di una tassazione bassa per attrarre capitali e investimenti. Una tassa comune sugli utili dei capitali mobili in Ue eviterebbe competizione sleale e potrebbe essere la fonte di un bilancio aggiuntivo comunitario per finanziare il meccanismo automatico di stabilizzazione, ovvero il reddito di cittadinanza europeo cui si è accennato nel paragrafo precedente. Un mix di questi suggerimenti rappresenterebbe il minimo indispensabile da adottare in Europa e soprattutto in Italia per sostenere e stimolare la crescita. Bisogna avere il coraggio di introdurre una nuova governance, per proiettarsi verso una maggiore integrazione dell’Ue, e implementare cambiamenti almeno nelle seguenti cinque direzioni:

1. introdurre uno strumento automatico europeo – un reddito di cittadinanza europeo, un reddito minimo tarato sulla soglia di povertà di ciascun Paese – sarebbe non solo economicamente utile, ma anche socialmente e politicamente necessario per colmare la distanza tra le autorità di Bruxelles e i cittadini europei;

2. riformare la Bce a partire dal suo statuto, includendo tra i suoi obiettivi anche quelli occupazionali, oltre che di stabilità dei prezzi. La Banca dovrebbe sorvegliare e intervenire sui debiti degli Stati membri acquistando quando necessario titoli del debito pubblico nazionale;

3. indirizzare una maggiore spinta verso la ricerca pubblica, l’innovazione e la fondazione di un’agenzia europea per i farmaci e i vaccini e per il cambiamento climatico;

4. escludere dai disavanzi dei bilanci degli Stati membri gli investimenti pubblici, almeno quelli utili alla transizione verde e digitale;

5. istituire un bilancio centrale europeo di almeno il 5% del Pil dell’Ue, che diventi progressivamente il 10%.

Operare in queste direzioni vorrebbe però forse dire superare innanzitutto una crisi ideologica, oltre che politica ed economica: una crisi che annovera tra le sue vittime il pluralismo di pensiero e il deficit democratico, e tra i suoi vincitori l’egemonia di un pensiero economico unico dominante.

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