
(di Michele Serra – repubblica.it) – Non basta essere giornaliste e italiane per fare parte della neonata associazione Giornaliste Italiane, vicina al governo. Perché l’italianità cui si fa riferimento, nel caso in questione, non è una banale condizione anagrafica.
È una conquista dello spirito. Un punto di approdo, uno stato di grazia che chi è italiana o italiano nella forma più corriva e, mi si lasci dire, meno meritevole, non è in grado neppure di afferrare.
Di questa nuova italianità, simboleggiata nel logo da una stilografica tricolore (chissà se è disponibile su Amazon), abbiamo già larga rappresentanza nella comunicazione politica e nella vigorosa azione patriottica del governo.
Nei tigì della Rai, costantemente sorvolati dalle Frecce Tricolori anche quando parlano di inflazione o di piscicoltura. Nella inesausta pratica neo risorgimentale, volendo anche neo rinascimentale, del ministro della Cultura Sangiuliano, che vede l’impronta dell’italianità in ogni piega del quotidiano (e noi, distratti, no). E in quella neo commensale del cognastro (cognato-ministro) Lollobrigida, che brandisce prosciutti e fusilli contro lo straniero e le sue subdole infiltrazioni di sushi e kebab.
È il trascinante clima da “l’Italia s’è desta” innescato dall’avvento a Palazzo Chigi di un partito che ci aveva avvertito fin dal nome, minacciosamente e però onestamente, di essere il solo veracemente italiano e forse di avere anche depositato il marchio dell’italianità: Fratelli d’Italia, per non dire delle Sorelle, assenti dal logo solo per la tradizionale discrezione.
Vano ripetere, parafrasando Totò, “italiani si nasce, e io modestamente lo nacqui”. Italiani si diventa, e non è alla portata di tutti. Peccato, perché dev’essere bellissimo essere sorvolati costantemente dalle Frecce Tricolori scrivendo alla mamma, con la penna tricolore, lettere tricolori.