Il governo di destra percepisce la critica soltanto come un affronto da legarsi al dito. A sinistra invece c’è il costante controcanto delle istituzioni e di scrittori, registi e attori “amici”

La libertà di espressione a singhiozzo tra intellettuali, querele e censure politiche

(FLAVIA PERINA – lastampa.it) – Libertà di stampa, di pensiero, di manifestazione: dopo l’atroce fine di Alexei Navalny il perimetro essenziale di quei diritti si fa più chiaro e si prova quasi vergogna a confrontarlo con le piccinerie del nostro dibattito politico. Quell’orribile fine in un gulag siberiano aiuta a ricordare che il rapper Ghali non è Alexander Solzhenitsyn, che Dargen D’Amico non è Bobby Sands. Aiuta a restituire il giusto peso al modesto cattivismo nostrano contro i rave o i blocchi stradali, ai trucchetti per blindare intercettazioni imbarazzanti, ai tweet e alle querele intimidatorie contro i giornalisti.

E tuttavia fare il punto sullo stato dei nostri diritti non è esercizio inutile. Sappiamo tutti che il modello intimidatorio delle autocrazie, e nello specifico della Casa Russia, è da tempo il riferimento di ogni movimento euroscettico. Fino a poco fa era apertamente blandito ed elogiato da una parte non piccola della nostra politica. Leader che non provavano imbarazzo a indossare t-shirt col faccione di Vladimir Putin o a scambiarsi con lui regali, intellettuali convinti che Mosca fosse la Terza Roma, unica guida possibile per la cristianità. Ora sono più silenziosi, la guerra ucraina li obbliga alla prudenza, ma resta il dubbio che le loro aspirazioni vadano in quella direzione: un potere senza la scocciatura del libero pensiero, dei liberi giornali, delle libere piazze.

Nella classifica internazionale sulla libertà di stampa prodotta ogni anno da Giornalisti Senza Frontiere l’Italia è passata dal posto numero 58 del 2022 al posto numero 41 registrato nel maggio 2023, sei mesi dopo l’insediamento del governo di Giorgia Meloni. Un buon progresso. Al tempo stesso, l’aneddotica dell’insofferenza governativa verso critiche o inchieste si estende ogni giorno. Querele ministeriali: Giancarlo Giorgetti contro Domani e Affaritaliani (per gli articoli sugli affari di Francesca Verdini); Roberto Calderoli contro Mattino e Messaggero (per le critiche sull’autonomia differenziata); Adolfo Urso e moltissimi altri contro Report. Minacce di querela: elenco notevole, spesso irridente (” Mi farò un gruzzoletto. ..” , Daniela Santanché contro tutti). E poi le diffide, categoria nuova: l’eccesso di satira contestato dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano a “Un giorno da pecora” , il manifesto malumore per le imitazioni di Beatrice Venezi.

Si dirà: la querela facile è un vizio diffuso a ogni latitudine politica. Vero, l’elenco è lungo anche se si guarda l’opposizione. Giuseppe Conte versus Repubblica per un articolo che gli attribuiva speciali sintonie con Donald Trump. Matteo Renzi versus Bianca Berlinguer per il racconto delle pressioni che subì ai tempi della sua premiership. Vincenzo De Luca versus chiunque e per qualsiasi motivo: Raffaele Fitto, Report, Selvaggia Lucarelli, Luigi Di Maio, Repubblica Napoli, il professor Walter Ricciardi. L’Unità versus Elly Schlein per il mancato invito alle feste che portano ancora il nome del quotidiano. “Ti porto in tribunale” è la frase fatidica che potremmo affiggere all’ingresso di ogni ministero o sede di partito al posto delle planimetrie degli uffici.

La stagione meloniana ha però una sua peculiarità specifica, da indagare. A sinistra il controcanto degli intellettuali amici, dei giornali amici, dei registi, degli attori, dei titolari di grandi istituzioni culturali, è stato una costante. Ogni governo partecipato dalle forze progressiste ha visto i suoi errori marcati da contestatori d’area puntuti e talvolta micidiali, il che non ha impedito ai critici e ai picconatori di farsi strada negli apparati culturali o di conquistare il favore del pubblico. Il caso Nanni Moretti tra tutti. Il caso Ettore Scola sopra tutti: dai video prodotti col Pci a La Terrazza, spietata disamina del fallimento di una generazione.

A destra no, non succede. I casi di dissociazione dal governo o da suoi esponenti si contano sulle dita di una mano. L’ultimo è l’editoriale del direttore di Libero Mario Sechi contro l’accordo con Elly Schlein sulla mozione per il cessate il fuoco a Gaza. Dicono i retroscena che abbia provocato fiamme e folgori. Vero? Falso? Resta la sensazione che il modello di riferimento a destra resti quello dell’intellettuale organico, dedito al servizio della Causa con la maiuscola. E qui la domanda si fa seria: esiste, è possibile, un confronto dialettico e critico all’interno del mondo conservatore? L’opinionismo che racconta e sostiene quell’area può permettersi il dissenso o deve limitarsi a cantare le lodi all’unanimità?

No, non ci sono Solzhenitsyn o Bobby Sands nel nostro dibattito pubblico, ne’a destra ne’a sinistra. Ma è evidente che pesa il timore di incorrere nel reato di lesa maestà. La critica politica è sempre più percepita come fatto personale, affronto da legarsi al dito. E infatti le discussioni più tempestose sono appese a nomi e cognomi, come le vecchie faide di paese. Il caso Lilli Gruber, il caso Gedi, il caso Ghali, Sigfrido Ranucci, Elena Cecchettin, Ilaria Salis. Questioni immense, la guerra, il patriarcato, le migrazioni, il conflitto di interessi, la tutela dei diritti dei detenuti in Europa, ridotte all’invettiva con chi le affronta da un punto di vista differente. Allo stesso modo si personalizza il rapporto con l’ordine pubblico, dove il giro di vite su un altro diritto importante – il diritto a radunarsi, il diritto a manifestare – funziona a corrente alternata. Massima severità anche verbale sui “Gretini” delle provocazioni ambientaliste, grande comprensione per i blocchi e le mattane degli altri, tassisti, agricoltori e pezzi di istituzioni non-bastonabili come il governatore De Luca durante l’assedio a Palazzo Chigi.

Anche qui, la retata di Vladimir Putin contro le piazze indignate per la morte di Navalny ci da’il metro di paragone per valutare certe sceneggiate securitarie, e al tempo stesso ci segnala un pericolo: l’aspirazione all’unanimismo è la prima caratteristica delle culture politiche illiberali. Ogni volta che agisce, emarginando o additando come pubblico nemico chi rovina il racconto del potere, è giusto alzare la guardia.