Già nel testo approvato dal Consiglio dei ministri saltava agli occhi l’anomalia d’un presidente eletto che è al contempo sottoposto alla fiducia delle Camere, per battezzare il suo governo

(di Michele Ainis – repubblica.it) – La riforma riformata. Dopo accordi e disaccordi fra i partiti della maggioranza, il premierato all’italiana cambia aspetto, indossa una tuta militare e gli scarponi. Rafforzando ancora di più il presidente del Consiglio, a costo d’indebolire gli altri commensali. E sbarazzandosi della stramberia d’un secondo presidente non eletto con più poteri del presidente eletto, avendo in mano (lui solo) l’arma dello scioglimento delle Camere. Dopo il restyling, viceversa, quest’eventualità si riduce a casi eccezionali. La caduta del premier bagnato dal voto popolare determina un nuovo voto popolare, a meno che non sia lui stesso a decidere la prosecuzione della legislatura. Quest’ultimo ottiene il potere di revocare i suoi ministri. E per contrappeso incontra il limite del doppio mandato, come avviene in tutti i regimi presidenziali.

Insomma, un sistema più compatto, più coerente. Ma la coerenza ha un prezzo, in politica così come nella vita. Chi lo paga? Mattarella. Giacché i suoi poteri vengono ridotti ulteriormente, diventano poesie a rime obbligate. Nomina il presidente del Consiglio sotto dettatura del risultato elettorale (peraltro falsato da premi e cotillon), scioglie le Camere sotto dettatura del presidente eletto. Merito della fatwa contro i ribaltoni, che inchioda maggioranza e opposizione sulle loro due trincee, vietando movimenti e accordi trasversali, quando s’affaccia una crisi politica a oscurare l’orizzonte. Sicché il Parlamento diventa un votificio, il televoto del Grande Fratello. È questo il peccato originale del premierato all’italiana: un culto religioso del potere, che ha perciò in odio ogni contropotere. Anziché lambiccarsi le meningi iniettando nuove vitamine al Premier, sarebbe meglio, molto meglio, risarcire gli altri organi costituzionali, compensando la sottrazione di peso e d’influenza che s’accompagna giocoforza al premierato. Un atto coerente isolato è la più grande incoerenza, diceva don Milani. E oltretutto l’esercizio di coerenza dei nostri ri-costituenti non merita fiducia, giacché s’infrange sul voto di fiducia. Già nel testo approvato dal Consiglio dei ministri saltava agli occhi l’anomalia d’un presidente eletto che è al contempo sottoposto alla fiducia delle Camere, per battezzare il suo governo. Una contraddizione, ha osservato la Consulta rispetto ad alcuni Statuti regionali che menzionavano questo doppio meccanismo (sentenze n. 372 e 379 del 2004, n. 12 del 2006): «il sistema della elezione a suffragio universale e diretto del presidente della Regione ha quale sicura conseguenza l’impossibilità di prevedere una iniziale mozione di fiducia». Dopo di che gli emendamenti concordati dalla maggioranza inventano la doppia sfiducia. In sintesi: nuove elezioni se il presidente eletto viene colpito da una «mozione di sfiducia», nuovo Premier se cade su una «questione di fiducia». Un pasticcio, ha dichiarato Marcello Pera (ex presidente del Senato eletto con FdI), mostrando — almeno lui — qualche grammo d’onestà intellettuale. Ma gli altri vanno avanti con i loro emendamenti. L’emendamento, che tormento.

Nasce da qui, da questa cifra di disperazione, l’idea di scavalcare il Parlamento, eleggendo un’Assemblea costituente. L’ha riproposta sulle colonne di Repubblica Beppe Tognon, ma è un’idea da perfezionare, al di là delle sue buone intenzioni. Giacché una Costituente è come il Padreterno, crea daccapo il mondo. Invece noi non abbiamo bisogno d’una Costituzione nuova. Eleggiamo piuttosto un’Assemblea di non parlamentari (75, come quella a suo tempo presieduta da Meuccio Ruini). Affidiamole il compito di redigere una bozza di riforma, da sottoporre alle due Camere. E apriamo i suoi lavori al contributo della società civile — associazioni, movimenti, singoli cittadini. Accadde già in Islanda, nel 2011. «La Costituzione in crowdsourcing», come venne definita. Che raccolse oltre 3600 commenti e circa 360 suggerimenti concreti. Ma l’Islanda è un’isola remota. L’Italia, viceversa, è una penisola di speranze ormai remote.