
(Lorenzo Serra – lafionda.org) – Partiamo da alcune evidenze: una tifoseria, quella romanista, sì per natura passionale, che negli ultimi anni sembra, tuttavia, aver conosciuto una nuova giovinezza – uno stadio Olimpico gremito, di partita in partita, prescindendo dai risultati, senza il pensiero di una fine. Di questo, José Mourinho, si può considerare uno dei massimi artefici: la tifoseria ha infatti seguito (quasi in massa), con una sua peculiare devozione, il proprio allenatore. Solamente riconoscendo questo stato di cose, questa realtà – non tacciandola, esclusivamente, dall’esterno di irrazionalismo – si può avviare una riflessione critica, ponendo il problema dei motivi del consenso, ed interrogandosi, cioè, su quali elementi si fondi questo singolare rapporto affettivo venutosi a creare tra tifoseria, squadra ed allenatore.
Mourinho è colui che ha incarnato (e ancora oggi, probabilmente, per molti tifosi, continua ad incarnare) quel sogno di riscatto di un popolo da una condizione subordinazione – vissuta, nel corso degli anni, con una sempre maggiore insofferenza. Ed è qui, infatti, in questa sensazione di disagio, che si origina quel pensiero (/sentimento) condiviso nell’era Mourinho: la possibilità di esser riconosciuti al pari delle grandi potenze – restituire a Roma quel ruolo che, da sempre, gli appartiene. Una gratitudine manifestatasi verso l’allenatore ancor prima che egli arrivasse nella capitale: “è stato un privilegio averti con noi”, recita, ancora oggi, uno striscione – Mourinho, cioè, come venuto da un mondo estraneo, per redimere l’attuale marginalità di Roma.
È stato questo, quindi, l’anelito di una tifoseria: la speranza di riscatto – una questione primariamente simbolica (che prescinde, almeno parzialmente, dal contesto tecnico-tattico). Ma questa speranza, via via, si è andata capovolgendosi in un (in)seguimento delle grandi potenze, piuttosto che in una contrapposizione ad esse originando dal proprio specifico modo di essere. Roma, cioè, si è raccolta in questo desiderio di divenire (/assomigliare, nei fatti) qualcosa di più grande, ma più si raccoglieva in questo sogno, più finiva per obliare i suoi tratti caratteristici. Così, la comunità che sognava il riscatto si tramutava ora in massa, assente di singolarità, o di qualsiasi coinvolgimento attivo: piuttosto, accettazione passiva (/fede cieca) in chi si credeva avrebbe potuto condurre la città al di là del Rubicone.
Ecco quindi che pur di portare a termine questo fine si accoglievano anche elementi in contraddizione con la città: una Roma aperta, ospitale che si tramutava, sempre più, in un luogo chiuso, assente di respiro. Ed ancora, la possibilità di servirsi di qualsiasi mezzo, anche oltre la soglia-limite, al fine di raggiungere qualsiasi traguardo (per limite qui non ci si riferisce qui al piano giuridico o formale del gioco, bensì al fatto di condividere, pur nella massima intensità o conflittualità con gli avversari, un ‘comune terreno’ di rispetto reciproco). Ma che cosa differenzierebbe, allora, Roma, e la sua tifoseria, da quelle grandi potenze – reali o sognate – a cui essa anelava contrapporsi?
La questione qui non riguarda solamente Roma (o una sua parte), bensì, in generale, il Sud del mondo, il Meridione, e, ancora, cambiando angolazione, quelle che Papa Francesco definiva “periferie dell’esistenza”: sognare un riscatto assumendo su di sé i tratti propri, non seguendo, maldestramente, quelli altrui. Riscoprire la forza autonoma di chi vive uno stato di subordinazione, coltivando anche il disagio, ciò che appare come una debolezza, al fine di scagliarli contro la Cultura dominante. Solo qui vi è una possibilità, seppur liminare, di rivoluzione: riscoprendo, cioè, quella peculiare comunità che appartiene ad una Roma che potremmo definire meridionale – e cioè uno specifico modo di vivere, e di stare insieme, inestimabile (non-quantificabile), e da considerare, questo sì, come autentico modello.
Probabilmente Mourinho ha avuto la funzione di risvegliare, a suo modo, quel sogno, sempre più assopito (non solamente a Roma), di riscatto, ma egli, per ragioni strutturali, non poteva, in questo luogo, condurre a termine l’impresa. Ciò che è oppresso, o attualmente sconfitto, può giungere, infatti, a rivoluzione esclusivamente partendo da se stesso – e, cioè, dalla propria verità. Chissà se allora il suo successore, Daniele De Rossi, possa risvegliare quella forza autonoma di cui abbiamo, oggi – non solo a Roma – disperatamente bisogno. Quel desiderio di entrare in scena anche noi, come recitava una splendida poesia di Rocco Scotellaro, con le facce ed i vestiti che avevamo.
Ma stiamo parlando di massimi sistemi o di una squadra di calcio ?
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O più semplicemente la tattica mediatica paracula (di uno che non ha più niente da proporre a livello calcistico) per cristallizzare il consenso. Tutto questo facendo affidamento al senso di vittimismo di noi romanisti.
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C’è ancora gente che pensa di ” restituire il ruolo di una capitale” , e non ha capito che il calcio è solo business per gente coi soldi . Per questo vincono solo squadre coi soldi . E ci sono ancora minorati che sêguono il calcio dei soldi persino in Arabia…..
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E intanto è morto Gigi Riva💔, leggenda come calciatore e come uomo.
Non ne nasceranno altri.
Che immenso dolore… noi sardi siamo devastati.
❤️💙💝
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comunque Roma è femminile, sia se parliamo della città che della squadra di calcio. Quindi “restituire a Roma quel ruolo che, da sempre, LE appartiene”
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“restituire a Roma quel ruolo che, da sempre, gli appartiene”. Cioè quello di squadra mediocre, quasi mai in competizione per lo scudetto come dice buona parte della sua storia? C’è riuscito in pieno.
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