Quarant’anni fa, il 5 gennaio 1984, l’omicidio del giornalista. Si erano compiuti depistaggi e insabbiamenti. Tuttavia neanche un tempo così lungo ha potuto cancellare i fatti

(di Lirio Abbate – repubblica.it) – La premier Giorgia Meloni sostiene in conferenza stampa di non vedere bavagli all’informazione nell’emendamento presentato da Enrico Costa di Azione che vieta di pubblicare il contenuto dell’ordinanza di custodia cautelare, l’atto con cui i giudici formalizzano l’arresto.

È il documento notificato alle parti che riporta la storia degli indagati, le intercettazioni rilevanti e riconducenti all’inchiesta, le prove acquisite e i nomi dei complici. Fatti e dati finora pubblicabili. D’ora in poi segreto fino al processo.

È un bavaglio che diventa legge. Un provvedimento di iniziativa parlamentare, come contesta la Federazione nazionale della stampa che «non di meno ha ricevuto una adesione trasversale e che, soprattutto, è stato votato dalla maggioranza che sostiene la presidente Giorgia Meloni».

Le affermazioni fatte tra una posa vittimistica e una smorfia del presidente del Consiglio sull’informazione, ci riportano alla realtà e cioè ad ostacolare le notizie.

E il dolore si fa più acuto se si pensa che queste affermazioni sono state fatte alla vigilia dell’anniversario dell’omicidio di un grande giornalista e scrittore, Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia a Catania la sera del 5 gennaio di quarant’anni fa. Assassinato su ordine dei boss di Cosa nostra perché quello che raccontava e denunciava sul suo giornale comprometteva il proficuo rapporto di scambio e collaborazione instaurato tra mafia, imprenditoria e politica.

Quarant’anni fa a Catania si negava l’esistenza della mafia, nessuno osava parlare dei boss, alzare lo sguardo su di loro. I politici erano corrotti, i mafiosi erano soci occulti di gran parte dell’imprenditoria e molti uomini delle istituzioni erano tra i favoreggiatori.

L’economia girava attorno ai “cavalieri del lavoro” che erano al servizio della mafia o che da Cosa nostra traevano enormi vantaggi. I soldi sporchi muovevano gli ingranaggi di una città in cui anche l’informazione veniva imbavagliata.

L’unica voce che si sentiva era proprio quella di Giuseppe “Pippo” Fava. Per questo delitto sono stati condannati gli esecutori, ma i mandanti sono impuniti.

Il suo lavoro di giornalista, anche dopo quattro decenni, ci porta a ricostruire e conoscere le ragioni di quella esistenza e della sua uccisione. E ci consente di ricordare non solo l’uomo, il professionista, il giornalista, ma soprattutto la Catania degli anni Ottanta “nella quale in tanti hanno vissuto, molti hanno lottato, ma pochi hanno detto, scritto e voluto sapere”. C’era un ostacolo all’informazione.

Durante la lunga vicenda processuale, conclusasi a novembre del 2003 con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, la città, come hanno ricordato in passato i legali della famiglia del giornalista, ha scelto il silenzio e la cecità, provando così a negare la storia di “Pippo” Fava e, con essa, un intero capitolo della storia di Catania e dei suoi gruppi dirigenti.

E quello che è venuto fuori dalle indagini ha restituito alla conoscenza di tutti l’esperienza umana e professionale di Giuseppe Fava, e della città nella quale aveva scelto di svolgere prevalentemente la propria attività di giornalista, direttore, artista e intellettuale.

Un’indagine che, nella fase immediatamente successiva all’omicidio, molti tentarono di impedire e altri ostacolarono: dai vertici della procura di allora ad alcuni giornalisti e opinionisti che si affannarono a escludere la matrice mafiosa del delitto. Non si doveva parlare di mafia, ma di altro.

All’apertura della vera inchiesta si è arrivati solo dopo dieci anni dall’agguato, quando alcuni mafiosi hanno iniziato a collaborare con la giustizia ed hanno svelato i retroscena dell’omicidio. Per dieci anni si erano compiuti depistaggi, insabbiamenti e interferenze.

E tuttavia, come è stato spesso fatto notare, neanche un tempo così lungo, colpevolmente interposto sino al momento dell’accertamento della verità in un’aula di giustizia, ha potuto cancellare i fatti, le persone, le connessioni tremende che avevano generato il delitto. E i giornalisti oggi contribuiscono a farli ricordare, a fare memoria.

La fondazione Giuseppe Fava ricorda oggi il giornalista a Catania e assegna in questa ricorrenza il premio nazionale di giornalismo a Francesco La Licata, firma de La Stampa, decano dei giornalisti siciliani, che dal 1970 si è occupato delle più importanti inchieste giudiziarie e in particolare di quelle mafiose.

La sua lunga carriera è stata imperniata nel far conoscere ad un sempre più vasto pubblico, non solo della carta stampata, ma anche del cinema e della tv, chi ha combattuto la mafia e ne è stato vittima, e chi li ha aggrediti e uccisi. Delineando una netta marcatura fra il bene e il male, senza spettacolarizzare il male, ma esaltando il bene.