Elly Schlein e Giorgia Meloni

(CHIARA SARACENO – lastampa.it) – In vista delle elezioni europee all’interno dei partiti è aperta la riflessione se sia opportuno o meno che si candidino, ovviamente come capolista, le e i rispettivi leader, a partire dalla presidente del consiglio, per quanto possa sembrare, più che uno sproposito, uno scherzo di dubbio gusto. È evidente, infatti, che Meloni, come qualsiasi altro presidente del consiglio, non lascerebbe la guida del paese per uno scranno a Bruxelles. Così come non lo fece Berlusconi, che per primo mise in atto questa, a mio parere, poco onorevole strategia elettorale. Lo stesso ragionamento vale anche per gli altri leader di partito, al governo o all’opposizione (nella misura in cui questi sono già stati eletti in Parlamento) o per i ministri in carica.

Quale è allora il senso di queste candidature? Si potrebbero definire uno specchietto per le allodole, come nelle pluri-candidature nei collegi uninominali, o per i capofila nelle liste bloccate, dove l’elettore non sa mai per chi sta effettivamente votando. Ma in questo caso l’imbroglio è insieme più grande e più alla luce del sole. Perché è ampiamente certo in partenza che la capofila presidente del consiglio o segretaria del Pd, una volta elette, non lasceranno il loro posto al governo e in parlamento, così come è dubbio che un ministro lasci volentieri il suo posto per diventare uno dei tanti a Bruxelles, a meno di non esservi costretto da un rimpasto che lo ricacci tra i peones.

Sarò una vecchia elettrice ingenua e all’antica, ma mettersi come capolista sapendo non solo di non voler accettare l’elezione ma che anche gli elettori ne sono consapevoli mi sembra un atto di profondo disprezzo degli elettori cui, come nelle liste bloccate, non viene data nessuna possibilità di scelta, salvo quella del partito (o dell’astensione, per una sfiducia sistematicamente coltivata anche tramite queste pratiche).

Si dirà che ormai i partiti sono diventati personali, sempre più identificati con i loro leader, quindi occorre seguire questa tendenza. Non è una buona ragione, al contrario. Non solo perché poi, per quanto facciano e pretendano, i/le leader non possono coprire tutti i posti ed esercitare tutte e funzioni, perciò sarebbe necessario, doveroso, sapere chi farà che cosa. Soprattutto, a mio parere, il mantello steso dalle/dai leader sui propri compagni e compagne di partito più che una forma di protezione e valorizzazione sembra una cancellazione, agli occhi degli elettori, delle loro individuali fisionomie e competenze da parte non del partito, ma della/del suo leader.

Agli elettori è chiesto un atto di fiducia non nei potenziali eletti e neppure direttamente in un partito, della sua storia, della sua capacità di individuare problemi, soluzioni, mettere in atto strategie credibili e consonanti con i propri orientamenti, ma in una persona che promette ciò che non manterrà, comunque non in prima persona. È una forma di disprezzo dell’elettorato ma anche di squalificazione degli altri potenziali eleggibili. Tra l’altro, non favorisce neppure la formazione di una classe politica competente e radicata sul territorio, perché la selezione è affidata pressoché esclusivamente alla cerchia dei leader di partito.

In questa prospettiva, mi permetto una piccola osservazione a margine del dibattito interno al Pd sulla opportunità di una candidatura Schlein come capolista. Le donne del Pd sono legittimamente preoccupate che, stante la regola dell’alternanza donna/uomo nella formazione delle liste, sottrarrebbe loro possibilità di essere elette, come già successe con le multi-candidature nei collegi uninominali nelle ultime due tornate elettorali. Pur serio, a mio sommesso parere questo non dovrebbe essere l’unico e forse maggiore ostacolo alla candidatura della segretaria. Qualsiasi cosa decida Meloni, da elettrice mi auguro che non ci sia connivenza nell’ingannare in questo modo l’elettorato e nella identificazione totale di un partito con la sua leader e pochi altri, anche quando mentono sfacciatamente.