L’ITALIA E LE TABELLE DELL’ISTITUTO BRUEGEL – Austerità. I tagli potranno salire a 20 miliardi se l’Ue non permetterà all’Italia di allungare i piani da 4 a 7 anni E questo al netto della procedura d’infrazione in arrivo

(DI MARCO PALOMBI – ilfattoquotidiano.it) – Sono “realistiche ed efficaci” le nuove regole del Patto di stabilità europeo che l’Italia ha avallato ieri e – al termine della complessa procedura legislativa Ue – dovrà applicare dall’anno prossimo? Efficaci si vedrà, realistiche solo in un mondo in cui la deflazione è un valore: il deficit deve sempre scendere, il debito è solo un problema da cancellare, non c’è alcuna vera clausola per garantire investimenti a cui pure ci siamo impegnati (green, digitale, difesa), le metodologie di calcolo sui conti pubblici sono le stesse che hanno imposto austerità all’Europa per oltre dieci anni.
La faccenda è tutta qui: i particolari sono importanti, ma il senso di marcia è evidente a chiunque non sia in malafede. Tradotto: se va molto bene, l’Italia dovrà contrarre il suo bilancio di 3,3 punti di Pil in sette anni, che in soldi – ai prezzi del 2024 – fa 12 miliardi e mezzo all’anno in media, questo se la crescita e l’inflazione saranno quelle previste, cosa di cui c’è da dubitare. Si dice: comunque meglio del Patto precedente ed è vero, ma bisogna anche dire che quel Patto non l’ha mai rispettato alla lettera nessuno, a partire dalla Germania che fu la prima a violarlo vent’anni fa. A questo giro, però, le procedure correttive sono state rafforzate e rese semi-automatiche.
A questo proposito, le nuove regole possono variare a seconda che si sia in procedura d’infrazione – come probabile da giugno per l’Italia – oppure no, ma anche qui il percorso cambia di qualche virgola in un anno o nell’altro, la direzione è la stessa. Prenderemo in considerazione l’ipotesi migliore, cioè che l’Italia debba solo rispettare il piano pluriennale di aggiustamento concordato con la Commissione. Le nuove regole prevedono infatti che – dopo una Analisi di sostenibilità del debito (Dsa nell’acronimo inglese) che serve a stabilire la traiettoria di aggiustamento dei conti pubblici – si concordino piani di rientro da realizzare in quattro anni, che possono diventare 7 in cambio di riforme e investimenti. I controlli verranno fatti sulla “spesa primaria netta” (detratti interessi sul debito e ammortizzatori sociali automatici), ma il debito deve calare nell’intero orizzonte del piano e – per i Paesi in cui supera il 90% del Pil – il deficit deve scendere sotto l’1,5%.
Fino al 2027, poi, anche i Paesi in procedura d’infrazione avranno uno sconto sul deficit: la Commissione terrà conto del maggior costo del debito dovuto all’aumento dei tassi, ma la traiettoria del deficit verso fine piano deve restare la stessa. Il think tank belga Bruegel, non certo un bastione euroscettico, ha di recente realizzato uno studio sugli impegni dei vari Paesi usando la Dsa della Commissione: per l’Italia la richiesta minima (sic) è un saldo primario strutturale del 3,7% del Pil entro la fine del piano di aggiustamento a 4 anni e del 3,3% in caso di piano a 7 anni.
È a quest’ultimo che punta l’Italia (2025-2031), perché la traiettoria di discesa del deficit è meno ripida: in media d’anno, dicono gli economisti di Bruegel, servirà una stretta fiscale, di 0,6 punti di prodotto, circa 12,5 miliardi a prezzi 2024. Se il piano fosse a quattro anni, invece, la correzione media sarebbe dell’1,1%, oltre 23 miliardi l’anno, un’enormità: per questo il governo Meloni s’è assicurato che riforme e investimenti del Pnrr fossero rilevanti per l’allungamento del piano a sette anni (si vedrà a Patto definito se in automatico o lasciando altre libbre di carne sulla bilancia).
L’orizzonte settennale, peraltro, è anche l’unico – ha detto in audizione l’Ufficio parlamentare di bilancio – “compatibile” con la Nota d’aggiornamento al Def presentata in settembre dal governo. Tutto a posto, dunque? Mica tanto. La Nadef tratteggia un quadro di austerità spostato in larga parte sul 2026, l’ultimo anno preso in considerazione: probabilmente la manovra per il 2025, quella dell’autunno prossimo, dovrà essere più restrittiva del previsto. Non solo: la Nadef dà per scontato che il 31 dicembre 2024 finiscano tanto il taglio del cuneo fiscale, quanto la riduzione dell’Irpef in vigore dall’anno prossimo. Si tratta di circa 15 miliardi di maggiori tasse incorporate nello scenario governativo e che andranno sostituite con altre tasse o maggiori tagli di spesa: questo solo per lasciare tutto com’è. E ancora: rispetto alla Nadef, l’orizzonte della stretta fiscale va allungato fino al 2031, fine pena mai. E infine: siccome tutti questi conti si fanno sul Pil nominale, se crescita e inflazione sono inferiori a quelle stimate la faccenda si complica ulteriormente. Per capirci, basti dire che il governo prevede un Pil a +1,2% l’anno prossimo, Bankitalia a +0,6%, non una piccola cosa: a spanne, sono quasi sei miliardi e mezzo di maggior deficit, lo 0,3% del Pil.
Questo sempre che la stretta fiscale perenne non abbia effetti sulla crescita, un assunto che gli ultimi tre lustri si sono preoccupati di smentire in continuazione, senza apprezzabili resipiscenze a Bruxelles e a Berlino. Come abbiamo scritto ieri, questo Patto di stabilità è il Mes che ce l’ha fatta.